Secondo l’Agenzia mondiale antidoping, gli atleti russi erano un affare di Stato. A doparli ci pensava il ministero dello Sport con l’aiuto persino dei servizi di sicurezza federali. Ma non c’è niente di strano in un Paese in cui a essere dopate sono le istituzioni stesse.
Il Cremlino gioca sporco. La World Anti-Doping Agency (Wada), l’organismo internazionale indipendente per la lotta al doping nelle competizioni sportive internazionali, ci è andata giù pesante. Hanno chiesto di escludere dalle prossime Olimpiadi di Rio tutti gli atleti iscritti al Comitato olimpico russo (Roc), incluso il Comitato paraolimpico, e di negare l’accesso ai rappresentanti del governo russo a tutte le competizioni internazionali.
Il rapporto McLaren, la sintesi finale delle lunghe indagini sullo scandalo doping in Russia pubblicato lunedì, ha appurato «oltre ogni ragionevole dubbio» che «i laboratori antidoping di Mosca e Sochi operavano all’interno di un sistema di falsificazione di Stato in cui il ministero dello Sport dirigeva, controllava e supervisionava la manipolazione delle analisi degli atleti, con l’attiva partecipazione dell’Fsb», i servizi segreti di Putin.
Gli agenti dell’intelligence si occupavano in particolare di «rimuovere i sigilli dalle provette e di fornire campioni di urina “puliti” da scambiare» con quelli positivi. Il coinvolgimento dell’Fsb era tale che Grigory Rodchenkov – l’ex direttore del laboratorio di Mosca, ora rifugiato in Usa, che insieme alla mezzofondista Yulia Stepanova ha scoperchiato il sistema – era stato inquadrato nei servizi segreti come agente, col nome in codice di «Kuts».
Quello orchestrato dal ministero dello Sport russo, afferma il rapporto McLaren, era «una truffa sistematica degli atleti russi» nelle competizioni internazionali, tale che «la presunzione di innocenza degli atleti coinvolti è seriamente messa in dubbio». Finora solo due atlete sono state ammesse ai giochi di Rio, la stessa Stepanova e la saltatrice in lungo Darya Klishina, poiché vivendo e allenandosi negli Usa da tempo sono sotto il controllo dei più affidabili laboratori antidoping americani.
Anche nello sport, nella Russia di Putin riemergono a galla sempre più retaggi del passato sovietico. La ricerca sugli aiuti medici allo sport erano parte integrante della cultura sportiva dell’Urss, secondo un sistema centralizzato e segreto. Il Comitato sovietico per lo sport, lo Sportkomitet, eseguiva un’affannosa ricerca sulle sostanze dopanti per gli atleti sovietici alle Olimpiadi. Non è cambiato molto.
Molto di più di uno scandalo sportivo
Il Comitato esecutivo della Wada in una nota ha persino notato che, «nonostante tutte le pubbliche dichiarazioni del governo russo, gli agenti erano così sicuri di non essere scoperti da continuare a operare alla stessa maniera durante le stesse indagini della Wada per tutto il 2015».
È chiaro che quanto portato alla luce dal rapporto McLaren va ben oltre lo sport. Istituzioni russe ai massimi livelli – il ministero dello Sport, i servizi segreti, l’Agenzia nazionale antidoping (Rusada), il Comitato olimpico – lavoravano senza esclusione di colpi né risparmio di risorse con un solo obiettivo: mentire e imbrogliare la comunità internazionale.
Niente di nuovo sotto il sole. È lo stesso e identico schema che vediamo, per esempio, per coprire i bombardamenti in Siria. Il ministero della Difesa fornisce filmati di bordo dei gli aerei, foto satellitari, prove per dimostrare di colpire solo obiettivi dell’Isis. «Prove» che risultano sistematicamente false, taroccate, deformate. In una parola, menzogne.
È lo stesso schema che abbiamo visto per depistare le responsabilità sull’abbattimento del volo Malaysia MH17: immagini satellitari photoshoppate, ricostruzioni televisive campate in aria, esperimenti scientifici fasulli. In una parola, menzogne.
È sempre lo stesso schema che abbiamo visto per nascondere gli interventi militari in Donbass, una caterva di dichiarazioni da Putin al ministro della Difesa Sergey Shoigu per dire che non c’erano soldati russi in Ucraina, parole smentite da innumerevoli foto e testimonianze sul campo. In una parola, menzogne.
È ancora lo stesso schema visto in Crimea, dove per legittimare un’annessione militare contraria al diritto internazionale si è ricorsi a un referendum dopato che, però, a differenza delle provette della Rusada non aveva neanche la parvenza di essere genuino.
Lo stesso schema usato per processare e incarcerare l’agente dei servizi segreti estoni Eston Khover, prelevato dall’Fsb al confine con l’Estonia, esposto alla televisione e incastrato con accuse infondate. In una sola parola, menzogne.
Stesso e identico schema usato per tenere in carcere due anni la pilota ucraina Nadiya Savchenko, condannarla con un processo farsa, senza una prova, con testimonianze inattendibili, e con un’accusa grottesca. Menzogne.
Ed è persino lo stesso schema visto per ammazzare la spia ribelle Aleksandr Litvinenko, ucciso con una dose di polonio nel tè, una modalità che non poteva non coinvolgere le più alte sfere dei servizi di sicurezza, su su fino a Putin.
Ecco perché le parole del Comitato esecutivo della Wada vanno molto, molto oltre lo sport: «Questa condotta dimostra un totale disprezzo della comunità internazionale e rafforza il bisogno di un reale e dimostrabile impegno delle autorità russe per un cambio di cultura».
@daniloeliatweet
Secondo l’Agenzia mondiale antidoping, gli atleti russi erano un affare di Stato. A doparli ci pensava il ministero dello Sport con l’aiuto persino dei servizi di sicurezza federali. Ma non c’è niente di strano in un Paese in cui a essere dopate sono le istituzioni stesse.