«Uno dei componenti del basso Pil italiano è il basso livello degli investimenti privati. Tutto è dovuto all’incertezza sulle riforme, un freno molto potente che scoraggia gli investimenti». Questa è una frase pronunciata da un banchiere centrale nell’agosto 2014. E no, non è stato Jens Weidmann, il numero uno della Bundesbank, a scandire queste parole. È stato Mario Draghi.
Non è stata la prima volta, non è stata l’ultima. Eppure, spesso l’Italia dimentica, chiude un occhio e cerca di identificare un nemico, una scusa. È successo ancora, la scorsa settimana, quando Weidmann è volato a Roma per i consueti meeting bilaterali con i funzionari governativi italiani. E, ancora una volta, l’Italia ha mostrato quanto soffre di doppiopesismo e di provincialismo.
Il presidente della Bundesbank è una persona seria e preparata. Gli scontri tra lui e Draghi, narrano i bene informati, sono nella sostanza, non nella forma. Weidmann è rigoroso, realista, meno dogmatico di come viene dipinto dalla narrativa economico-finanziaria italiana. Ma ha un peccato mortale, specie per la stampa italiana: è tedesco. Pertanto, ogni volta che Weidmann apre bocca per parlare dei problemi dell’eurozona, si cerca sempre e solo il riferimento – compiendo spesso dei veri e propri atti di dietrologia molesta – all’Italia. Weidmann parla di riforme strutturali? Allora attacca Roma. Weidmann parla di politica monetaria meno espansiva? Allora vuole limitare Draghi e quindi l’Italia. Weidmann parla di un cap sui titoli di Stato detenuti in pancia dalle banche dell’area euro? Allora vuole affossare le banche italiane.
Stavolta, dopo aver parlato – in modo del tutto legittimo – di squilibri macroeconomici e di utilizzo della flessibilità nella gestione del deficit pubblico, buona parte dei commentatori italiani si sono scatenati nella corsa al “Dagli al crucco”. Lo ha fatto il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, lo ha fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Eppure, cosa ha detto Weidmann di così diverso da quello che ripete Draghi dal novembre 2011? Nulla. Assolutamente nulla. Volete un esempio? Eccolo.
«Matteo Renzi l’anno scorso in occasione della presentazione del bilancio italiano ha dichiarato che la politica fiscale italiana viene fatta in Italia e che l’Italia non permette che essa venga dettata dai burocrati di Bruxelles. In un’unione fiscale questo cambierebbe. Uno Stato membro dovrà adempiere alle richieste di una autorità fiscale europea».
Questa è una delle frasi pronunciate da Weidmann all’ambasciata tedesca a Roma. Il riferimento era a uno dei progetti più ambiziosi dell’euro area, ovvero la gestione centralizzata dei bilanci nazionali. In altre parole, un ministero delle Finanze in ambito comunitario. Eppure, come ha ricordato poi Weidmann, ci sono tanti ostacoli per il compimento di questo progetto. Gli interessi nazionali – specie di Italia, Francia e Germania – stanno prevalendo. Aggiunge infatti Weidmann che «a mio avviso si tratta di ostacoli enormi. Al momento non vedo la volontà di superare questi limiti, né in Italia, né in Germania, né in altri Paesi».
Ora confrontiamo con quanto detto da Draghi nell’agosto 2014.
«Per i Paesi dell’Eurozona è arrivato il momento di cedere sovranità all’Europa per quanto riguarda le riforme strutturali».
E non è la prima volta che parla di più integrazione, l’ex governatore della Banca d’Italia. La linea è condivisa dalla maggior parte dei membri del Consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce). Il motivo è semplice: quando si siedono sulle poltroncine della sede della Bce, i banchieri centrali non rappresentano il Paese di cui detengono la cittadinanza. Rappresentano l’Europa e l’eurozona. Punto.
Perché quindi usare questo fastidioso doppiopesismo e la solita dose di provincialismo quando si discute di politica monetaria o di economia? Perché conviene. Conviene trovare una scusa, invece che una soluzione. Conviene trovare un nemico (molto spesso immaginario) per procrastinare quanto bisognerebbe fare da anni. Conviene guardare solo il proprio piccolo orticello invece che osservare – e analizzare – l’intero quadro, specie quando è deprimente.
Chi attacca Weidmann ignora due fattori fondamentali che hanno permesso all’Italia di galleggiare vivacchiando dal 2011 a oggi. Draghi è dal dicembre 2011, quando ci fu il primo round delle Longer-term refinancing operation (Ltro), che sta facendo guadagnare tempo agli Stati membri. Lo ha fatto e continua a farlo da oltre quattro anni. Sembra ieri quando l’Italia era sul punto di essere estromessa dal mercato obbligazionario, quando al G-20 di Cannes si completò il passaggio da Silvio Berlusconi a Mario Monti. Se l’Italia non è andata a gambe all’aria, bisogna ringraziare soprattutto Draghi. E Weidmann. Perché entrambi stanno ricordando all’Italia (e alla Francia, alla Germania…) che la politica monetaria non è la panacea per tutti i mali. Può comprare tempo, come ha fatto e continua a fare. Può far galleggiare un Paese, o un’intera area economica, a suon di liquidità. Ma la spinta propulsiva per il rinnovamento di un Paese, sotto il profilo economico, deve arrivare dalla politica. Ecco perché Weidmann ha parlato di volontà mancante a superare gli ostacoli che potrebbero portare all’unione fiscale.
Eppure, nel Paese in cui si usano i pesi e le misure in base alla convenienza, al fine di mantenere alto il consenso politico come se si fosse in campagna elettorale permanente, una visione così di lungo periodo come il percorso verso l’unione fiscale non è contemplata. Si preferisce lo scontro ideologico, il becero tifo. O con me o contro di me. Ecco quale è la narrativa dominante, fatta di machismo politico e esaltazione per successi economici derivanti da fattori non domestici. E tremano i polsi quando si rileggono le parole spesso pronunciate da Draghi: «La politica monetaria non è onnipotente». Già. E cosa succederà quando la Bce non avrà più margini di manovra?
«Uno dei componenti del basso Pil italiano è il basso livello degli investimenti privati. Tutto è dovuto all’incertezza sulle riforme, un freno molto potente che scoraggia gli investimenti». Questa è una frase pronunciata da un banchiere centrale nell’agosto 2014. E no, non è stato Jens Weidmann, il numero uno della Bundesbank, a scandire queste parole. È stato Mario Draghi.