Sono trascorsi due anni dalla notte del 31 luglio 2015, quando il fotoreporter Rubén Espinosa venne ritrovato morto, assassinato, insieme ad altre quattro donne in un appartamento nel quartiere Narvarte di Città del Messico. Due anni senza che si sia arrivati a conoscere la verità su chi abbia commesso quegli omicidi e, soprattutto, perché.
Sappiamo soltanto che assieme ad Espinosa – trentuno anni, fotografo per il noto settimanale Proceso e per l’agenzia Cuartoscuro – vennero uccise anche l’attivista Nadia Vera, l’aspirante modella colombiana Mile Virginia Martín, la studentessa diciottenne Yesenia Quiroz e la domestica Alejandra Negrete. E sappiamo anche che Espinosa e Vera condividevano un passato di opposizionea Javier Duarte, l’ex-governatore dello stato di Veracruz arrestato il 15 aprile scorso in Guatemala dopo una lunga latitanza, estradato in Messico due settimane fa e attualmente sotto processo con le accuse di corruzione, riciclaggio di denaro,abuso d’ufficio e collusione con il crimine organizzato. Per quell’opposizione sia Espinosa che Vera avevano ricevuto molte minacce di morte, e dopo averle denunciate pubblicamente decisero comunque, per precauzione, di allontanarsi dal Veracruz per trasferirsi a Città del Messico, tradizionalmente ritenuta più sicura del resto del paese.
Durante il mandato di Javier Duarte (2010-2016) il Veracruz si è convertito nello stato messicano più pericoloso e mortifero per i giornalisti: diciassette è il numero ufficiale di quelli che sono stati assassinati, e altri tre risultano ancora oggi dispersi. Rubén Espinosa è stato uno dei sette giornalisti uccisi in tutto il Messico nel 2015; nel 2014 erano stati cinque, nel 2016 saranno undici, un nuovo picco dopo quello del 2010. Finora, in questi primi sette mesi del 2017, le stime ufficiali includono già otto casi: i più noti sono quelli di Miroslava Breach e di Javier Valdez, il più recente quello di Salvador Adame, il 14 giugno.
L’omicidio di Rubén Espinosa sconvolse l’opinione pubblica nazionale e internazionale, e molti in Messico manifestarono chiedendo giustizia per le vittime e gridando Fuistetú, Duarte («Sei stato tu, Duarte»). Eppure, nonostante la pressione proveniente dalla società civile, non soltanto l’ex-governatore veracruzano non è mai stato seriamente coinvolto nelle indagini, ma queste ultime si sono rivelate un concentrato di omissioni e depistaggi.
La Procura della capitale ha arrestato e accusato dei cinque omicidi tre uomini, che hanno però rilasciato confessioni contraddittorie e sostenuto di essere stati torturati durante gli interrogatori; nei loro confronti mancano delle prove davvero solide e soprattutto manca un movente plausibile. Secondo la ricostruzione ufficiale, il “caso Narvarte” altro non sarebbe che una storia di comune microcriminalità legata alla droga: la Procura ritiene che una delle vittime, Mile Virginia Martín, fosse coinvolta in un piccolo giro di spaccio e che i tre uomini si fossero introdotti in casa sua con l’intento di rubarle della cocaina. Non ci sono evidenze che confermino questa versione, e l’accostamento arbitrario di Martín al narcotraffico sembra più un tentativo di criminalizzazione costruito a partire dalla sua nazionalità colombiana. Al contrario, il movente del furto non spiega perché le cinque vittime siano state uccise e addirittura torturate né perché dall’appartamento non sia stato sottratto alcunché di valore, a parte una piccola somma di denaro. Lo scorso anno la stessa Procura capitolina fece sapere che l’uomo a capo delle indagini aveva contaminato la scena del crimine con le sue impronte digitali. Dopodiché emerse che le autopsie sui corpi delle vittime non erano state condotte correttamente e che quindi non potevano dirsi valide.
Le investigazioni non hanno adottato una linea che tenesse conto dell’identità di genere delle vittime – eppure ben quattro su cinque erano donne, e alcune mostravano segni di violenza sessuale –, rimuovendo nel contempo anche qualsiasi implicazione politica nonostante Vera fosse un’attivista ed Espinosa un giornalista, ed entrambi avessero ricevuto per questo minacce di morte dalle autorità dello stato di Veracruz. La comunicazione al pubblico delle informazioni sul “caso Narvarte” è stata inoltre gestita in maniera cinica, paternalistica e irrispettosa nei confronti delle vittime attraverso la diffusione delle foto dei loro corpi, anche seminudi, marcando la presenza di alcolici nell’appartamento e insinuando che le donne più giovani fossero delle prostitute e delle spacciatrici.
Tutte queste criticità sono state ribadite lo scorso 21 giugno dalla Commissione per i diritti umani del Distretto federale (CDHDF), che le ha raccolte in un documento inoltrato alla Procura di Città del Messico, la quale ha detto di aver accettato tutte le raccomandazioni contenute. La speranza è che non restino lettera morta.
@marcodellaguzzo
Sono trascorsi due anni dalla notte del 31 luglio 2015, quando il fotoreporter Rubén Espinosa venne ritrovato morto, assassinato, insieme ad altre quattro donne in un appartamento nel quartiere Narvarte di Città del Messico. Due anni senza che si sia arrivati a conoscere la verità su chi abbia commesso quegli omicidi e, soprattutto, perché.