Pechino fa sapere che «tollererà» il presidente filippino Duterte e la sua volontà a vedere confermati i supposti diritti filippini sul Mar Cinese meridionale, purché non tiri troppo la corda. Gli analisti cinesi non sono tutti concordi sulla valutazione della visita di Duterte in Cina e sui suoi effetti diplomatici nell’area. Alcuni, ad esempio, non credono alle parole del presidente filippino.
Il presidente filippino Rodrigo Duterte, personaggio ambiguo e che ha fatto parlare di sé per le sue sparate dialettiche, maleducate, fuori le righe e per la sua clamorosa e durissima campagna contro la droga (colpendo sia i tossici, sia gli spacciatori) arriva in Cina.
Si tratta di una visita attesa da giorni, perché Duterte sembra essersi presentato al proscenio asiatico con l’intenzione di sparigliare le carte. Le Filippine, storico e saldo alleato di Washington e di recente «vittoriose» sulla Cina grazie a una sentenza della Corte internazionale dell’Aia, sembrano invece intenzionate, secondo le parole del proprio presidente, a virare verso Pechino.
I dirigente di Pechino non sono degli sprovveduti: sanno che l’occasione è ghiotta – soffiare un alleato di Washington – ma non sono certamente degli ingenui. Duterte quindi – e le sue proposte – sono state vagliate con attenzione, sia dai leader sia dai media.
E proprio Duterte ha rilasciato un’intervista «di presentazione» all’agenzia ufficiale Xinhua, nella quale ha provato a mettere in chiaro alcuni aspetti.
Duterte ha affermato che la sua visita «punta a restaurare la fiducia reciproca dopo le aspre tensioni sulle dispute territoriali nel Mar Cinese meridionale»; ha aggiunto che la Cina «è una potente risorsa di capitali per lo sviluppo delle infrastrutture di cui necessitano le Filippine, aggiungendo che il suo paese farà leva sulla solida minoranza di due milioni suoi cittadini di etnia cinese al fine di favorire un ponte per gli investimenti da Pechino».
La Xinhua, a sua volta, ha specificato che la visita di Duterte può essere «un passaggio per chiudere anni di separazione tra i due Paesi». Le indicazioni in tal senso, infatti, sono nei propositi del presidente filippino di voler ridurre i contatti con gli Stati Uniti in favore di un’espansione delle relazione con Pechino: in altri termini, «il cattivo sangue tra Pechino e Manila sta ora cedendo finalmente il passo alla buona fede».
Il tema della sentenza arbitrale di luglio della Corte dell’Aja, che ha accolto le ragioni filippine a danno di quelle cinesi, «non sarà oggetto di discussione tra le parti»: si tratta di un punto fermo da parte della Cina. Molti analisti hanno specificato che tutto andrà secondo le migliori intenzioni se Duterte non aprirà quel capitolo.
Nell’intervista Duterte, ricordando che suo nonno era cinese, ha rimarcato di non puntare molto su Usa e Paesi occidentali, e di fidarsi invece di Pechino che – al contrario di Obama – non ha avuto niente da ridire sulla sua politica anti-droga.
Duterte, inoltre, ha espresso il desiderio di sviluppo congiunto con la Cina nel mar Cinese meridionale in cambio di sostanziosi aiuti. «Non c’è senso nel fare la guerra, non c’è senso nel voler lottare su un pezzo di acqua: è meglio parlare – ha aggiunto – che fare la guerra». Domenica, però, il presidente ha spiegato che la questione territoriale non sarà rimossa o oggetto di negoziato durante la visita in Cina. «Continuiamo a insistere che quella parte (del mar Cinese meridionale, ndr) è nostra».
Chi pare avere meno remore è il Global Times, quotidiano che rappresenta i «falchi» nel Pcc. Secondo il giornale la Cina dovrebbe ricambiare le aperture di Duterte, perché l’occasione è troppo propizia: le Filippine fuori dall’orbita Usa e giapponese è un’opportunità storica per la Cina. E a chi ritiene che Duterte possa essere poco sincero nei confronti della Cina, il Global Times propone una lettura puramente geopolitica («logica» secondo il quotidiano) delle intenzioni del presidente filippino: Pechino è il miglior partner per la campagna anti-droga e per le infrastrutture di cui il paese ha bisogno.
@simopieranni