Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, in carica dal 30 giugno scorso, è stato criticato da tutto il mondo per la tolleranza zero contro droga e criminalità. Accusato da Human Rights Watch, dalle Nazioni Unite, da Barack Obama e anche dall’Unione Europea di non garantire i diritti umani nel Paese, il «Trump delle Filippine» o «Il giustiziere» – così come viene soprannominato dai media – sta andando avanti per la sua strada.
Uccisi migliaia di spacciatori e consumatori
Coma abbiamo già scritto sulle pagine di Eastonline, durante la campagna elettorale Duterte aveva promesso di «combattere la criminalità a tutti costi» e di «eliminare il traffico di droga entro sei mesi». In che modo? «Sparando ed uccidendo». E così ha fatto. In tre mesi, secondo le stime ufficiali rese note dal capo della polizia Ronald Dela Rosa nella lotta al narcotraffico del presidente filippino, sono state uccise quasi 1800 persone. Più di 700 sono morte durante «seimila operazioni di polizia», mentre circa un migliaio sono state quelle provocate da «gruppi di vigilantes», interessati a riscuotere le ricompense promesse sottobanco dalle varie autorità locali. Ma i numeri potrebbero essere molto più alti. Secondo diverse associazioni umanitarie, infatti, le uccisioni sommarie di presunti consumatori o spacciatori di sostanze stupefacenti, sarebbero oltre 3mila.
La Chiesa contro Duterte
«Nella campagna di giustizia sommaria ci sono morti innocenti, molti sono uccisi sulla base di un semplice sospetto, senza verificare le accuse in sede giudiziaria. Questo aspetto allarma la Chiesa ed è stato di recente ribadito dai Vescovi», ha dichiarato all’agenzia Fides padre Socrates Mesiona, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie nelle Filippine. «È vero che la droga è una grave piaga che affligge la Nazione, ma quello che chiediamo è che la questione sia affrontata con i mezzi propri dello stato di diritto e del rispetto della vita di ogni cittadino». Anche l’Arcivescovo Socrates Villegas, presidente della Conferenza episcopale delle Filippine, nei giorni scorsi ha diffuso un messaggio dove invita le autorità a garantire il rispetto dei diritti umani nella lotta al traffico di droga, ricordando che «la dignità umana va sempre protetta e la nobiltà di ogni persona continua a brillare nonostante le cicatrici del crimine e del peccato».
«Mi servono altri sei mesi per continuare la guerra»
Ma Duterte non si ferma e ha chiesto al suo popolo altri sei mesi per portare a termine la guerra contro la droga. «Il problema è che non ho potuto ucciderli tutti, anche se avrei voluto. Non sapevo che ci fossero così tante persone immischiate nel narcotraffico e che avessero anche contatti con membri del governo», ha detto il presidente in una recente conferenza stampa. Nel corso delle operazioni anti droga volute dal «Trump delle Filippine», infatti, sono finite anche duecento persone, tra sindaci, giudici, deputati, militari e poliziotti, accusati di avere legami con il traffico di stupefacenti. «Non avevo capito quanto fosse grave e seria la minaccia in questa repubblica. Ora, che sono presidente, ho capito e chiedo altri sei mesi per continuare la lotta».
Le accuse non fermano il presidente
Il presidente ha governato la difficile città di Davao, nel sud delle Filippine, per oltre vent’anni ed è stato accusato di aver organizzato gli «squadroni della morte», responsabili dell’assassinio di quasi duemila persone. Proprio in questi giorni, Edgar Matobato – un ex miliziano al soldo di Duterte quando era sindaco di Davao – ha rivelato di fronte a una commissione del Senato sui crimini commessi dalle forze di sicurezza dal 1998 al 2013, che il premier del Paese ha ordinato molte uccisioni e ha ammesso di averne eseguite almeno una cinquantina. «Il nostro compito era quello di uccidere i criminali come gli spacciatori, gli stupratori e i ladri», ha affermato Matobato sotto giuramento. E ha aggiunto: «Alcune delle vittime erano uccise e scaricate sulle strade di Davao o sepolte in tombe anonime», mentre altri «sono stati gettati in mare con lo stomaco aperto in modo da non galleggiare e essere mangiati subito dai pesci».
Senza tregua e col supporto del popolo
Ma in un Paese che conta ben 3,7 milioni di tossicodipendenti e con gravi problemi di criminalità, nonostante le critiche sull’operato del «giustiziere», il popolo filippino si è schierato dalla parte della politica intransigente del presidente. E Duterte non intende certo fermarsi ora.