È ora di un trattato internazionale sulla plastica?
La proposta viene da due millennials tedeschi, Nils Simon e Luisa Maro Schulte, e vorrebbe rimediare ai tanti problemi degli attuali trattati. Per cominciare - ad esempio - si potrebbe parlare dell’inquinamento marino prima che i rifiuti vengano scaricati in mare
La proposta viene da due millennials tedeschi, Nils Simon e Luisa Maro Schulte, e vorrebbe rimediare ai tanti problemi degli attuali trattati. Per cominciare – ad esempio – si potrebbe parlare dell’inquinamento marino prima che i rifiuti vengano scaricati in mare
Da anni una delle tematiche più discusse dai capi di stato a livello internazionale è la salvaguardia dell’ambiente, soprattutto se si parla di clima. Dopo il protocollo di Montreal e quello di Kyoto, nel 2015, gli accordi di Parigi – ne abbiamo parlato approfonditamente qui – sono stati l’ultimo passo per tentare di tenere sotto controllo l’aumento della temperatura globale. Il problema però – come fanno notare Nils Simon e Luisa Maro Schulte, due scienziati tedeschi – è la mancanza di un trattato internazionale che parli dello smaltimento dei rifiuti e di quelli che finiscono in mare.
A marzo i due giovani scienziati hanno pubblicato un lungo articolo dove sostenevano l’esigenza di una nuova convenzione o trattato internazionale sull’inquinamento da plastica, specialmente di quella che poi finisce negli oceani dalla terraferma. Si si stima che circa l’80% della plastica presente negli oceani ci finisca dagli scarichi sulle coste – un problema che ancora nessun trattato ha mai considerato. Un altro problema della legislazione esistente è la mancanza di misure vincolanti e globali. Molti dei trattati esistenti contengono solo linee guida indicative, totalmente volontarie, e spesso non seguite, mentre il raggiungimento di obblighi giuridici è ancora una prospettiva lontana.
L’industria della plastica
Plastics Europe – associazione portavoce delle multinazionali della plastica in Europa – ha stimato che nel 2015 sono state prodotte a livello mondiale 322 milioni di tonnellate di plastica, una cifra che continuerebbe ad aumentare e che potrebbe quadruplicare entro il 2050. Come fanno notare Simon e Maro Schulte, il costo effimero dei materiali e la loro durabilità sono contemporaneamente sia uno dei principali vantaggi sia una delle proprietà della plastica più devastanti. La plastica – avvertono – sarebbe così economica che viene spesso usata per prodotti usa e getta e per lo più monouso. Ad esempio, secondo una recente stima, passato un breve periodo dopo il primo utilizzo, il 95% degli imballaggi di plastica finiscono per non avere più alcuna utilità economica. Un problema, soprattutto per quanto riguarda lo smaltimento di questi rifiuti: poiché la plastica si degrada molto lentamente – a seconda dei polimeri si va da circa dieci a mille anni – la crescente produzione di questi polimeri porterà ad una quantità sempre maggiore di residui di plastica nell’ambiente. C’è inoltre un problema di residui tossici: il cloruro di polivinile, polimero rigido con cui vengono fabbricati ad esempio i giocattoli per i bambini e i vinili, non si degrada facilmente e quando lo fa rilascia nell’ambiente un gran numero di sostanze riconosciute come cancerogene dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Unione Europea.
La questione principale a proposito della dispersione dei rifiuti di plastica nell’ambiente riguarda specialmente quei rifiuti che poi finiscono in mare, e da lì in aperto oceano. Raccogliere la plastica una volta finita negli oceani non è un’operazione di poco conto. Innanzitutto per il costo troppo elevato – per fare un esempio l’Indonesia ha garantito che impegnerà 1 miliardo di dollari annuo solo per pulire i suoi mari – e poi perché i polimeri di plastica possono diventare microscopici e invisibili ad occhio nudo. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Science nel 2010, ogni anno finiscono nell’oceano tra i 4.8 e i 12 milioni di metri cubi di plastica. Il lavoro di ONG come Greenpeace e Friends of Earth, per citarne alcune, è importantissimo per aumentare la consapevolezza dell’enorme impatto che l’inquinamento da plastica ha sull’ambiente: immagini di fiumi pieni di immondizia, spiagge sporche di bottiglie di plastica, isole di plastica più grandi della penisola iberica che galleggiano nell’oceano Pacifico, animali marini intrappolati tra reti di plastica, e questo cavalluccio marino, sono diventati un trend su internet.
Il trattato
Per i due giovani ricercatori, la soluzione è una sola: impedire ai rifiuti di plastica di entrare negli oceani in primo luogo. Secondo Simons e Schulte, la negoziazione di una convenzione mondiale che affronti l’inquinamento da plastica dalla sua fonte favorirebbe la ricerca scientifica per la produzione di materie plastiche più sostenibili, e aiuterebbe i Paesi a valorizzare i propri sistemi di raccolta e riciclaggio. Ciò che i due ricercatori propongono è un nuovo trattato internazionale basato su cinque pilastri:
- La definizione di un obiettivo chiaro e vincolante sul piano legale per regolare lo scarico dei rifiuti di plastica negli oceani. Infatti, anche se la comunità internazionale attualmente sembrerebbe preferire misure volontarie a trattati giuridicamente vincolanti, il problema dell’inquinamento da plastica è globale, costoso, e continuerà a crescere.
- Il coinvolgimento di ogni paese firmatario per proporre un piano d’azione che contenga piani specifici, adattabili da paese a paese.
- Ovviamente, la transizione ad un regime a rifiuti zero richiede degli investimenti. Qualsiasi trattato internazionale sulla plastica deve pertanto comprendere un meccanismo di finanziamento, ed il principio del “chi inquina paga” può essere un buon inizio.
- Il successo di questo trattato dovrà essere continuamente monitorato attraverso un rigoroso meccanismo di controllo.
- Il coinvolgimento di stakeholders non governativi dalla società civile, come aziende, imprese, e università dovrebbe essere vitale sia per la promozione di questo trattato, sia per il suo mantenimento.
Secondo Simons e Schulte, non sarà facile gestire il problema della plastica: nessun paese o azienda, per quanto determinata, lo può fare individualmente. Molti attori, compresi i principali produttori di plastica – ovvero i principali inquinatori – le iniziative a rifiuti zero, i laboratori di ricerca e le cooperative per la raccolta dei rifiuti, dovranno affrontare il problema di petto.
In definitiva, un nuovo trattato sulla plastica colmerebbe una lacuna nel diritto internazionale, visto che per la prima volta si potrebbe parlare di un impegno vincolante e globale, con il coinvolgimento di più parti della società civile – in primis le stesse aziende produttrici di plastica. L’industria globale della plastica – che ricava circa 750 miliardi di dollari l’anno – può senza dubbio trovare qualche centinaia di milioni di dollari per aiutare a pulire il disastro che ha prodotto.
Il ruolo dei Millennials
Molte azioni sono già state intraprese invece dai political-makers del futuro, i Millennials, una generazione iper-connessa tra internet e social media, e che secondo molti ha il potere, la passione e la volontà per far iniziare il cambiamento.
Secondo il più recente Global Shapers Survey 2017, prodotto dal World Economic Forum – ne abbiamo parlato qui – i Millennials di 186 paesi hanno selezionato il cambiamento climatico e i problemi ambientali come le questioni più gravi a livello globale. Ed è proprio a loro che l’ONU si è voluta rivolgere, attraverso la sua agenzia UNOPS (Ufficio delle Nazioni Unite per i Servizi e i Progetti) e la collaborazione con We Are The Oceans – un’organizzazione non profit fondata da una ventitreenne, Daisy Kendrick. L’idea della giovane attivista ambientale è stata quella di creare un flash-game online, The Big Catch, dove i giocatori, impersonando un piccolo cetaceo, devono contribuire a pulire l’oceano dalla plastica, evitando di imbattersi negli ostacoli come reti da pesca e relitti. Il gioco distribuisce informazioni divulgative sull’inquinamento ambientale negli oceani ad ogni livello. Lanciato lo scorso aprile, il flash-game è stato giocato nel primo mese da più di 3 milioni di persone, e visto sui social media da più di 7 milioni di utenti.
Daniela Fernandez è invece una ventitreenne statunitense, laureata in economia e governo all’università di Georgetown. Come la sua coetanea Daisy Kendrick ha anche lei fondato un’organizzazione non profit di tutela ambientale, Sustainable Oceans Alliance, che ha destato l’interesse delle Nazioni Unite. Il SOA è un’ONG fondata da una millennial per i millennials: il suo obiettivo è quello di dare voce e potere alle nuove generazioni, educare e coinvolgere i giovani sulla lotta al cambiamento climatico e soprattutto all’inquinamento degli oceani.
In un’intervista a Oceans Deeply, Daniela Fernandez ha concluso con un monito ai policy-makers: “Noi millennials non siamo né pigri né sconnessi dal mondo reale, come ci definiscono le generazioni più adulte. Anzi, siamo tutto il contrario. Siamo costantemente connessi, siamo molto ambiziosi e siamo pronti all’azione. La nostra generazione è quella che erediterà tutti gli errori fatti nel passato da altre persone. Tocca quindi a noi migliorare la situazione attuale”.
La proposta viene da due millennials tedeschi, Nils Simon e Luisa Maro Schulte, e vorrebbe rimediare ai tanti problemi degli attuali trattati. Per cominciare – ad esempio – si potrebbe parlare dell’inquinamento marino prima che i rifiuti vengano scaricati in mare
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