Dopo quasi un decennio di negoziati e controversie fra la Commissione europea e i governi di molti Paesi africani, gli Accordi di partenariato economico, meglio noti come EPA (acronimo inglese per Economic Partnership Agreements), figurano ancora tra le principali questioni economiche irrisolte della Comunità dell’Africa orientale (EAC).
Nei giorni scorsi, l’EAC ha deciso di rinviare la firma degli EPA, prevista per il primo ottobre, almeno fino al gennaio prossimo. A voler posticipare la sottoscrizione sono state Tanzania e Burundi, che in questo modo hanno messo in crisi l’unità dell’organismo regionale.
Kenya e Rwanda, infatti, avevano deciso di procedere in solitaria, firmando lo scorso primo settembre intese individuali con Bruxelles, nonostante un precedente accordo stabilisse che l’EAC avrebbe agito in modo unitario.
Il processo di negoziazione degli EPA tra l’Unione europea e l’EAC si era concluso il 16 ottobre 2014, con l’approvazione di un documento di 640 pagine, dove sono inclusi diversi accordi commerciali che prevedono l’esenzione dei dazi doganali per le importazioni, oltre a intese sulla cooperazione allo sviluppo economico e varie materie da definire entro i cinque anni dall’entrata in vigore dell’accordo, come previsto all’articolo 3 inserito nella clausola di revisione (le questioni in sospeso vertono sullo scambio di servizi e sulle tematiche connesse).
Negli EPA, ci sono inoltre diversi elementi di preoccupazione che Tanzania e Buundi intendono appianare prima di firmare gli accordi. Tra questi, figurano i possibili effetti negativi sull’industria nazionale, che potrebbero derivare dall’esenzione di imposte sull’importazione. A temere soprattutto l’introduzione di questa misura è la Tanzania, secondo cui gli accordi sono stati progettati per annientare il settore manifatturiero locale.
I timori sono originati dal fatto che, in linea di massima, i beni di produzione locale non potranno competere con i criteri di qualità e prezzo delle merci esenti da dazio importate dall’Europa, che generano anche il rischio di dumping.
Un altro ambito di preoccupazione è la possibilità di ridurre le entrate a causa degli accordi per le importazioni duty-free. Questo è da intendersi nell’ambito del commercio internazionale, le cui accise sono tra le principali fonti di introito per le casse degli Stati EAC. C’è inoltre il timore di perdere le entrate del commercio internazionale a causa della deviazione diretta degli scambi dall’Asia all’Europa.
I paesi dell’Africa orientale individuano un’ulteriore fattore di incertezza nella recente decisione di uscire dall’UE presa dalla popolazione britannica. La Brexit potrebbe incidere sulla questione per un duplice motivo: l’importanza che riveste il Regno Unito nell’UE, nonché gli ottimi rapporti commerciali dei britannici con l’EAC.
Per Kenya, Uganda e Tanzania, il Regno Unito rappresenta il loro ex colonizzatore, un grande partner commerciale e un’importante fonte di aiuti allo sviluppo e investimenti. Per questo, il fattore Brexit costituisce sicuramente un motivo di preoccupazione, che deve essere risolto prima che i capi di Stato EAC firmino gli accordi di libero scambio a lungo termine.
Tuttavia, l’articolo 99 dell’accordo sottoscritto nel 2014 prevede clausole di salvaguardia per quei Paesi, la cui bilancia commerciale può essere negativamente influenzata dallo squilibrio commerciale causato dalle importazioni esenti da dazi.
L’articolo 99 afferma dunque che ci saranno misure di tutela, come indicato all’articolo 77 degli EPA, che include l’aggregazione della capacità competitiva dell’EAC, la cooperazione allo sviluppo nel settore delle infrastrutture, agricoltura, pesca, allevamento, settore privato, sicurezza idrica e alimentare, accesso al mercato e agevolazione degli scambi. Resta però da vedere se queste misure di salvaguardia siano davvero efficaci per contenere le ripercussioni prodotte dall’esponenziale aumento delle importazioni dall’UE, in grado di da mettere a rischio la sopravvivenza delle industrie locali.
Appare singolare che su questi accordi gravi ancora tanto sospetto e incertezza da parte dei governi africani, mossi dal fatto che gli EPA hanno permesso l’apertura totale dei mercati attraverso l’eliminazione di tutte le barriere alla libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali.
L’abbattimento delle barriere e l’applicazione della reciprocità negli scambi UE-ACP ha segnato l’aumento delle esportazioni dei Paesi comunitari europei nei mercati del Sud del mondo, peraltro già agevolate dalla politica dei sussidi attualmente in vigore in Europa, che aveva incoraggiato gli Stati africani a commerciare con l’Unione europea, ma non tra loro.
Infine, va ricordato che prima degli EPA le relazioni commerciali tra l’UE e i Paesi ACP erano regolate dagli accordi di Cotonou, firmati nel giugno 2000, con la clausola che i prodotti ACP, prevalentemente materie prime, potessero essere esportati nei mercati europei senza essere tassati.
Questo però non valeva per i prodotti europei esportati nei paesi ACP, che dovevano invece sottostare a un regime fiscale di tipo protezionistico. E con l’introduzione degli Accordi di partenariato economico tutto ciò è venuto meno.
Nella pratica risulta difficile considerare gli EPA come strumenti di crescita, perché in realtà questi accordi si limitano a stabilire la liberalizzazione del mercato delle merci senza concretizzare valide politiche di aiuti allo sviluppo.
Dopo quasi un decennio di negoziati e controversie fra la Commissione europea e i governi di molti Paesi africani, gli Accordi di partenariato economico, meglio noti come EPA (acronimo inglese per Economic Partnership Agreements), figurano ancora tra le principali questioni economiche irrisolte della Comunità dell’Africa orientale (EAC).