Quando un progetto su cui hai investito anima e corpo, mettendo sul tavolo tempo, lavoro, fatica, impegno e soldi (e non solo i tuoi, tra l’altro) se ne va gambe all’aria, non è mai un momento piacevole. Tocca sorbirsi l’amaro calice che trabocca un cocktail a base di delusione, frustrazione, rimpianto, rabbia.
Ma quando lo stesso progetto se ne va a farsi benedire per ragioni totalmente indipendenti dalla tua responsabilità o dall’impegno (magari scarso, o comunque insufficiente) profuso, allora niente cocktail: è come lo shot di fine serata, un bicchiere della staffa dal sapore particolarmente sgradevole. Perché al posto del rum c’è solo tanta, tanta rabbia.
Questo, in estrema sintesi, il triste epilogo di Road to N’Djamena, il mio progetto di reportage sulle attività della Croce Rossa Internazionale nella capitale del Ciad, totalmente finanziato attraverso il crowdfunding, mobilitando un piccolo grande tsunami di micro finanziamenti (o almeno quella era l’idea originaria) che partisse direttamente dai lettori.
L’idea, forse non geniale, ma comunque abbastanza innovativa da riscuotere un discreto successo tra i potenziali lettori e un altrettanto discreto apporto di finanziamenti, si è infatti scontrata con un brutto mix di boicottaggio, diffidenza, incomprensioni (non saprei dire quanto reali o frutto di scuse puerili), ostacoli e marce indietro messo su da chi, all’inizio, aveva promesso il massimo interesse nella buona riuscita dell’iniziativa, nonché il soggetto che avrebbe dovuto essere il protagonista principale del reportage: l’International Committee of the Red Cross, la Croce Rossa Internazionale. E da questo scontro la mia idea è uscita, ahimè, troppo malconcia per concretizzarsi nel progetto che avrebbe voluto diventare.

Ma andiamo con ordine.
Perché l’Africa? Perché il Ciad? Perché proprio l’ICRC? La risposta ruota tutta attorno ad un mio carissimo amico dei tempi del liceo, che dopo svariati anni di esperienza maturati lavorando in Africa in qualità di cooperante per alcune Ong, da circa un anno è delegato ICRC proprio a N’Djamena, capitale del Ciad. È proprio perché incuriosito dai suoi racconti che decido di provare a proporre in giro a qualche redazione un reportage sull’attività che la Croce Rossa Internazionale svolge all’interno delle carceri per monitorare le condizioni di vita dei detenuti e il rispetto dei diritti umani. Il mio amico si mostra subito entusiasta per il mio interesse, è dispostissimo a darmi una mano, per quanto nelle sue possibilità, ma mi esorta, ovviamente, a pianificare il tutto secondo l’iter corretto, ovvero mettendomi in contatto con gli uffici centrali di ICRC a Ginevra e passando attraverso il loro imprescindibile “imprimatur”.
I primi contatti con ICRC risalgono ai primi di novembre, quando J.I.C., Public Relation Officer per l’Africa Orientale risponde alla mia mail inviata agli uffici di Ginevra comunicandomi che, purtroppo, il mio progetto originario di documentare l’attività della Croce Rossa Internazionale nelle carceri ciadiane non è realizzabile: la presenza degli operatori ICRC, mi spiega, è frutto di delicatissimi accordi con il governo locale basati su un’altrettanto delicata rete di rapporti fiduciari. “Confindential”, è il termine utilizzato. Tradotto dall’elegante burocratese, significherebbe che mettere di mezzo un giornalista potrebbe significare compromettere tutto quanto.
Addio carceri, dunque.
Ma non tutto è perduto, anzi. È lo stesso PR Officer a farmi sapere che le visite nelle prigioni ciadiane per monitorare le condizioni di vita dei detenuti non sono l’unica attività che ICRC svolge nel paese: c’è anche un centro di riabilitazione fisica a N’Djamena, specializzato nell’aiuto ai bambini.

Accetto con entusiasmo l’alternativa proposta e comincio a mettermi al lavoro per far sì che si trasformi in una realtà concreta. Il che significa, oltre che prendere accordi con la delegazione ICRC sul campo, che inizialmente si dimostra cortese e disponibile, per quanto incredibilmente “sospettosa” circa le mie intenzioni di reporter, contattare la nostra delegazione diplomatica sul campo per ottenere i visti e i permessi necessari a lavorare a N’Djamena. Secondo le leggi del Ciad, infatti, per qualunque reportage che preveda la realizzazione di riprese o immagini è necessario ottenere preventivamente un’autorizzazione da parte del Ministero della Comunicazione, indicando nella richiesta il materiale video/fotografico che si porterà con sé, e il luoghi dove si intende effettuare le riprese. Qualunque ripresa effettuata fuori dai confini dell’autorizzazione, comprese le fotografie scattate per strada con un normalissimo smartphone, possono avere conseguenze assai spiacevoli per l’eventuale contravventore. Compreso l’arresto.
Ma, com’è ovvio, l’intero iter burocratico non sarebbe nemmeno partito se non avessi avuto sin da subito il supporto e l’aiuto di Jacopo Tondelli, direttore della testata online “Gli stati generali” e di Fabrizio Goria, direttore editoriale del sito web della rivista “East”, disponibili sin da subito ad ospitare articoli e servizi del mio reportage. Ed era stato proprio Tondelli a suggerirmi il ricorso ad una piattaforma di crowdfunding per sostenere il costi del progetto: viaggio (piuttosto oneroso. Il Ciad non è esattamente dietro l’angolo e nemmeno così ben collegato), spese amministrative (visti), spese mediche (profilassi antimalarica e vaccinazioni), vitto, alloggio, e un “minimum wage” di compenso, quantificato in 60 euro giornalieri per ciascuno dei giorni di durata della spedizione in terra africana (tempo complessivo stimato per la realizzazione del reportage: tra i 5 e i 7 giorni). Perché il lavoro è lavoro, ed è sempre pagato, poco o tanto che sia. Altrimenti non è lavoro.
Insomma, si parte. Le trattative con ICRC su cosa vedere, chi intervistare, quando partire procedono senza grosse difficoltà. D. L., responsabile della comunicazione di ICRC a N’Djamena, mi mette in contatto con la responsabile del centro di riabilitazione, e, non essendo io francofono, sembra preoccupatissima circa la mia capacità di riportare correttamente (sic) le dichiarazioni della dottoressa A. C. R., l’operatrice sanitaria a capo del centro di riabilitazione di N’Djamena.
Nasce il blog roadtondjamena.wordpress.com, “cassa di risonanza” e “strillone ufficiale” del reportage. Iniziano i contatti con altre realtà impegnate, oggi come ieri, sul teatro ciadiano: le Nazioni Unite, con l’OCHA – Office for Coordination of Humanitarian Affair, i cui delegati sono così cortesi e solerti da propormi una giornata di briefing e interviste sulle loro attività a N’Djamena e nel resto del Paese già il primo giorno del mio arrivo nel paese, in programma per il 19 gennaio; alcune cooperanti italiane attive con ong internazionali, e persino lo Stato Maggiore della Difesa italiana, cui mi rivolgo per farmi raccontare la missione umanitaria EUFOR TCHAD, sotto egida UE, attiva tra il 2008 e il 2009 con un ospedale da campo e personale medico-sanitario. Parte anche il crowdfunding sulla piattaforma Eppela.com, che riscuote sin da subito un insperato (quanto graditissimo) successo, lasciando ben sperare sul raggiungimento dell’obiettivo: 2000 euro. Tolte le spese di viaggio, di logistica e i compensi, documentati al centesimo, tutto il resto verrà devoluto alle iniziative dell’ICRC attraverso i link messo a disposizione sul sito internet ufficiale. O almeno questi avrebbero dovuto essere i piani.

Già, perché l’8 gennaio, vale a dire dieci giorni prima della programmata partenza, con il biglietto già in tasca anticipato a mie spese, senza che avessi mai avuto sentore di un cambiamento di rotta, come un fulmine a ciel sereno arriva la poco simpatica mail a firma di R. B., il nuovo capo-delegazione ICRC subentrata pochi giorni prima della pausa natalizia, quindi a trattative già concluse da un pezzo. In breve, la signora B. non solo si rifiuta di confermare alla delegazione diplomatica italiana in Ciad le finalità del mio viaggio (passaggio fondamentale per ottenere il famigerato permesso governativo a svolgere attività giornalistica in territorio ciadiano, e quindi il mio reportage) ma mi accusa – a suo dire, dopo un’attenta lettura del mio blog (sic) – senza troppi giri di parole di spacciarmi per un delegato della Croce Rossa Internazionale, e di utilizzare il nome dell’ICRC per fini personali, a scopo di lucro, con il fine di finanziare quello che definisce il mio “personal trip” in Ciad. Il tutto con l’ingiunzione di eliminare dal mio blog qualsivoglia riferimento alla Croce Rossa Internazionale (come se raccontare la loro attività in Ciad non fosse l’obiettivo primario del mio reportage), pena la ventilata ipotesi di azioni legali.
Che fare? Il tempo stringe. Dieci giorni potrebbero non essere sufficienti a chiarire l’equivoco e tentare di ricucire lo strappo, specie con visti d’ingresso e permessi ancora in ballo. In più, anche in caso di una soluzione positiva, in quale atmosfera avrei potuto lavorare, dovendo avere a che fare con qualcuno che non si era fatto remore di mettere con così tanta leggerezza così pesantemente in discussione la mia professionalità e onestà? In più, c’era di mezzo il crowdfunding, con le donazioni di tanti lettori che rischiavano seriamente di non poter essere utilizzate. Meglio fermarsi e restituire tutto e subito, a scanso di spiacevoli strascichi.
E così, dopo una consultazione con Jacopo Tondelli, ho deciso di rinunciare. Addio alla spedizione ma non (per quanto possibile), al reportage, che cercherò in ogni caso di portare a termine “dalla distanza”, sfruttando il gran numero di contatti preziosi raccolti durante le settimane di preparazione del mio viaggio. A ben poco sono valse le scuse giunte via telefono (verba volant, scripta manent) dal quartier generale della Croce Rossa Internazionale di Ginevra qualche giorno dopo la mia secca mail di risposta alle accuse del capo delegazione ICRC in Ciad. Equivoco o meno, eccesso di “zelo” o di arroganza, incomprensione più o meno dolosa che fosse, diventa complicato intrattenere rapporti di serena collaborazione con chi, dopo mesi di trattative e sperticate promesse, un bel mattino si sveglia con l’idea di appiccicarti in fronte l’etichetta di cialtrone.
Resta il rammarico per la miopia e l’atteggiamento inspiegabilmente ottuso di un’istituzione internazionale di altissimo rilievo, che si presupporrebbe debba avere tutt’altra attenzione nei confronti della stampa e dei giornalisti. Specie nel momento in cui ci sarebbe l’opportunità di portare all’attenzione dell’opinione pubblica un’attività senza ombra di dubbio pregevole e meritoria.
Dunque arrivederci, N’Djamena. Sarà per la prossima volta. Forse.
@Pautasio
Quando un progetto su cui hai investito anima e corpo, mettendo sul tavolo tempo, lavoro, fatica, impegno e soldi (e non solo i tuoi, tra l’altro) se ne va gambe all’aria, non è mai un momento piacevole. Tocca sorbirsi l’amaro calice che trabocca un cocktail a base di delusione, frustrazione, rimpianto, rabbia.