La crisi ucraina andava evitata dialogando con Mosca. Oggi, a “frittata fatta”, gli attori in campo sono tanti e nessuno sembra decisivo.

Se rileggiamo gli eventi che hanno causato e stanno caratterizzando la crisi euro-russo-ucraina di queste settimane, non potremmo non immedesimarci nelle ragioni dello “zar” Putin, sì proprio lui! Proviamo a capire perché.
L’Europa, trainata dalla leadership polacco-baltico-scandinava, quasi trascina l’Ucraina nello spazio di influenza comunitario, con la firma dell’Accordo di associazione previsto per fine novembre 2013, senza aver neanche pensato di ottenere il consenso preventivo dell’ingombrante vicino russo, come si farebbe in qualsiasi Consiglio di Amministrazione dove uno dei soci di riferimento vuole forzare lamano su un passaggio difficile: o ci si copre preventivamente, negoziando il consenso del socio maggioritario, oppure si programma un blitz, con tutte le possibili conseguenze dirompenti, in caso di fallimento del colpo a sorpresa.
La crisi ucraina scoppia in uno scenario simile al secondo dei due descritti, con l’aggravante di una serie di inutili provocazioni: il Segretario generale della Nato in scadenza, il danese Rasmussen, in un impeto irresponsabile, tipico dei fine mandato, dichiara l’intenzione di progredire nella collaborazione con l’Ucraina, sulla falsariga di quanto realizzato con la Russia. Putin risponde che preferisce sia “la Nato a venirci a trovare a Sebastopoli, piuttosto che noi a fare visita alla Nato…”.
Il Segretario di Stato americano Kerry e la Baronessa Ashton si fanno riprendere mentre offrono il caffè ai rivoltosi di piazza Maidan, non rendendosi conto del significato politico e non solo umanitario di quella presenza; la nuova dirigenza ucraina, insediatasi provvisoriamente dopo la rovinosa fuga di Yanukovich, con il solo incarico di condurre il Paese a elezioni a maggio, ritiene prioritario vietare l’uso della lingua russa nei territori dell’Est, caratterizzati storicamente da una presenza maggioritaria russa.
E poi c’è la dimensione economico-finanziaria, addirittura paradossale: se un vostro amico vi deve 10mila euro e poi decide di cambiare giro di amicizie e non vi frequenta più, non gli chiedereste il rimborso del prestito, già scaduto da tempo? È quanto Putin ha fatto quando il pur amico Governo Yanukovich ha deciso di firmare un Accordo di associazione con l’Unione europea, finanziato con 200 milioni di euro, chiedendo – tra annullamento dello sconto sulla bolletta energetica e debiti non saldati– il rientro immediato di circa 12 miliardi di euro! Inducendo così Yanukovich al dietrofront(obbligato e prevedibile) e i giovani ucraini filo-europei alla protesta di piazza, spontanea e senza regia, pur progressivamente inquinata da gruppi ultranazionalisti e fascisti.
Le provocazioni sono state determinanti nel far scattare la reazione muscolare di “zar” Putin (nei confronti della cui autocrazia non nutriamo alcuna simpatia spontanea), che ha ordinato ai suoi soldati di stanza nella base di Sebastopoli di uscire dal loro recinto e circolare nella penisola di Crimea, innescando una sollevazione popolare a favore dell’antica Madre Russia, operazione riuscita e sancita da un referendum che ha visto un’ampia partecipazione e un vero e proprio plebiscito in favore del ritorno a Mosca. È necessario sottolineare che questi accadimenti sono anche il risultato di una classe dirigente ucraina, quale che sia lo schieramento, largamente inadeguata allo storico obiettivo di condurre il Paese verso istituzioni autenticamente democratiche.
Mentre Putin cerca di perfezionare l’annessione– reazione estrema all’accerchiamento dell’Occidente all’antica potenza depotenziata– scattano le reazioni della comunità internazionale, in un ventaglio di iniziative che, al di là delle dichiarazioni di principio (dei poco convinti leader americano, inglese e francese),vanno dalle sanzioni adottate nei confronti di alcune decine di rappresentanti della classe dirigente, non di primo piano, russa e ucraina da parte di Europa e Usa, alla minaccia di riprendere a tappe forzate il cammino di ingresso dell’Ucraina in Europa e addirittura nella Nato, mostrando di non aver capito il rischio altissimo che si sta tuttora correndo, quando eserciti e armi sono troppo vicini e con il colpo in canna.
La comunità del business prova a ragionare e ricorda che tutti i paesi Ue dipendono dal gas russo e che le produzioni energetiche russe sono rivolte prevalentemente al mercato europeo, non facilmente sostituibile in poco tempo. Non va sottovalutato però il fattore politico, umano e psicologico in queste crisi, quando sul terreno si muovono disordinatamente giovani idealisti, truppe militari e bande irregolari. Altrimenti non si spiegherebbe come mai proprio alcuni paesi, quelli con la più alta dipendenza energetica dalla Russia (Finlandia e Baltici100%, Polonia 80%), siano tra i più intransigenti difensori dei diritti, mentre un paese come l’Italia, che conta sul gas russo solo per il28% del totale di quello che importa, sia a capo del fronte del dialogo con Putin, unica via d’uscita strutturale e di lungo periodo da una crisi che altrimenti rischia di funestare la vita di un’intera generazione di Europei.
Gli echi di sommovimenti di nazioni ispirate dal vento crimeo, in regioni a forte presenza di popolazioni russe come la Transnistria, l’Ossezia o l’Abkhazia, sono un’ulteriore conferma che l’unica cosa sensata da fare è: dialogare e negoziare!
La crisi ucraina andava evitata dialogando con Mosca. Oggi, a “frittata fatta”, gli attori in campo sono tanti e nessuno sembra decisivo.