Non si placa la repressione della comunità Lgbt in Egitto. Il tentativo del regime militare è di reprimere qualsiasi spazio di libertà, inclusi i tradizionali luoghi di ritrovo degli omosessuali, ma finanche gli sparuti gruppi di atei che, secondo la retorica di regime, frequenterebbero alcuni bar del centro del Cairo.

La retata più grave della polizia locale ha riguardato però il bagno turco «Porta del mare», nel quartiere Ramsis. 33 uomini sono stati arrestati e condotti in prigione a gruppi, sulle camionette della polizia.
Tre degli uomini arrestati con l’accusa di «dissolutezza», sarebbero stati poi anche vittima di violenza in carcere. Lo ha confermato il portavoce dell’autorità medico-legale, Hisham Abdel Hameed, dopo i test medici a cui sono stati sottoposti gli arrestati.
Un caso simile risale soltanto all’11 maggio 2001, quando ufficiali della polizia e della sicurezza di Stato hanno fatto irruzione sulla «Queen Boat», imbarcazione ancorata sul Nilo, e hanno arrestato oltre cinquanta persone. Era noto che si tenessero lì feste a cui prendeva parte la comunità omosessuale del Cairo. In quel caso l’accusa mossa contro alcuni degli arrestati è stata di prostituzione maschile perché in Egitto l’omosessualità non è un reato punibile per legge.
La rappresentazione mediatica della retata anti-gay
A rendere questa vicenda particolarmente crudele sono state però le immagini trasmesse dalla televisione pubblica. La giornalista Mona Iraqi ha ripreso infatti con la sua videocamera la scena dell’arresto che è stata ripetutamente mostrata dalla televisione pubblica egiziana. Nel mandare in onda le immagini degli uomini che venivano fatti salire sui camioncini della polizia, come dei deportati, la giornalista ha annunciato che per la prima volta nella storia delle televisioni arabe, avrebbe mostrato la polizia morale mentre «reprime il più grande covo di sesso maschile di gruppo» nel cuore della capitale.
Non solo la spettacolarizzazione televisiva della retata ha messo in serio pericolo gli uomini arrestati perché la pratica omosessuale è diffusamente stigmatizzata in Egitto, ma dimostra anche lo stretto accordo tra media pubblici e forze di sicurezza dopo il golpe del 2013.
Ormai sono oltre cento gli omosessuali nelle carceri egiziane. Alcuni hanno subito sentenze esemplari. I militari, al potere dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013, si sono presentati come un baluardo contro le politiche conservatrici dei Fratelli musulmani, sebbene gli islamisti non abbiano mai represso la comunità Lgbt in Egitto come sta avvenendo in questi mesi. Lo scorso novembre, otto uomini sono stati condannati a tre anni di detenzione con le accuse di dissolutezza, perché apparivano in un video che, secondo il giudice, rappresentava un matrimonio omosessuale su una barca sul Nilo.
Gay senza primavera
Dal colpo di stato militare del 2013, gli omosessuali egiziani non hanno pace. La comunità Lgbt in Egitto, dopo le rivolte del 2011, ha puntato sulla rivendicazione dei diritti omosex in un Paese con una schiacciante maggioranza di musulmani praticanti, dove le libertà sessuali sono un tabù.
Nel 2011, piazza Tahrir raccolse le rivendicazioni di tutti gli emarginati della società egiziana: dalle donne ai migranti, dai tifosi di calcio ai poveri, dai lavoratori ai venditori ambulanti. Non solo, all’incrocio tra la piazza e via Talaat Harb, all’angolo della fermata della metro Sadat e sui cancelli di fronte al fast food KFC, si svolgeva un’altra silenziosa rivoluzione. Si raccoglievano lì, durante le manifestazioni anti-Mubarak prima e anti-Morsi poi, o in normali giorni di lavoro, gruppi di giovani omosessuali.
È chiaro che ora, reprimendo la comunità omosessuale che avanza le prime richieste di diritti omosex in Egitto, dopo le manifestazioni di piazza del 2011, l’esercito crede di mostrare di opporsi a ogni tendenza anti-islamica, presente nella società, per avere le mani libere e continuare a reprimere i movimenti islamisti, duramente censurati dopo il colpo di stato militare. Le telecamere della televisione pubblica sono usate poi per rivelare proprio questi ultimi spazi di libertà, come se si trattasse di una battaglia necessaria per i militari che hanno bisogno di essere rappresentati come «moralizzatori» per legittimare la più cruda repressione.
Non si placa la repressione della comunità Lgbt in Egitto. Il tentativo del regime militare è di reprimere qualsiasi spazio di libertà, inclusi i tradizionali luoghi di ritrovo degli omosessuali, ma finanche gli sparuti gruppi di atei che, secondo la retorica di regime, frequenterebbero alcuni bar del centro del Cairo.