Il prossimo governo dovrà gestire la crisi idrica del Canale di Panama, quella migratoria nella Selva del Darién e assicurare la stabilità al proprio posizionamento internazionale che oscilla tra Pechino e Washington.
Si terranno questa domenica le elezioni generali a Panama, paese chiave nella geopolitica del continente americano, il cui il panorama elettorale fa presagire incertezza nel futuro prossimo. Il candidato che fino a febbraio appariva in cima a tutti i sondaggi, l’ex presidente Ricardo Martinelli, è stato infatti escluso dai comizi a causa di una condanna a 10 anni di prigione per un caso di riciclaggio e corruzione iniziato negli Usa.
I figli di Martinelli, Ricardo Alberto e Luis Enrique Martinelli Linares, avevano già confessato a un tribunale di New York di aver intascato circa 28 milioni di dollari grazie alla rete di corruzione costruita in America Latina dal colosso brasiliano Oderbrecht. Questa settimana l’ex presidente, auto esiliatosi presso l’ambasciata del Nicaragua a Panama City, ha chiuso la campagna elettorale con un video di appoggio a José Raúl Mulino, che era suo candidato a vicepresidente fino alla conferma della condanna da parte della corte suprema. Mulino è in testa a tutti i sondaggi col 35% delle preferenze, seguito da un altro ex presidente, Martín Torrijos, figlio del generale Omar Torrijos Herrera che ha governato il paese tra il 1968 e il 1981, e fondatore di uno dei movimenti più popolari del paese.
La popolarità di Martinelli è legata all’ultimo periodo di benessere economico che ha vissuto il paese, che ha coinciso proprio col suo mandato tra il 2009 e il 2014. Lo stato, durante quel periodo – ed in buona parte anche durante il periodo del suo successore Juan Carlos Varela -, ha giovato di condizioni internazionali favorevoli legate all’espansione del commercio internazionale e soprattutto degli investimenti nel settore finanziario panamense, mondialmente conosciuto per l’opacità delle proprie transazioni e la quasi nulla pressione fiscale sui capitali internazionali.
I problemi sono sorti a partire dal 2020, dopo l’elezione dell’attuale presidente Laurentino Cortizo.
Lo shock economico rappresentato dalla pandemia ha fatto cadere il pil del 17% nel giro di un anno, un colpo dal quale il Paese non si è più ripreso. A guidare il tentativo di riportare a galla l’economia sono stati gli introiti del Canale bi-oceanico e l’estrazione di rame della mega mina a cielo aperto di Donico, una delle più grandi e moderne al mondo.
Per allargare i benefici che l’esportazione di minerali sembrava dare al resto dell’economia, durante l’anno scorso il presidente Cortizo ha rinegoziato il contratto di concessione con la canadese First Quantum Minerals Ltd., provocando però una delle ondate di protesta più grandi della storia del Panama.
Indigeni, contadini, studenti universitari e movimenti sociali hanno paralizzato il paese durante settimane, fino a quando la Corte Suprema non ha sancito l’incostituzionalità dell’accordo tra il governo e la multinazionale canadese e il presidente ha annunciato la chiusura definitiva della miniera.
Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, la cancellazione delle operazioni a Donico significherà una contrazione del PIL del paese superiore al 5%, rendendo ancor più difficile la ripresa economica.
Il presidente Cortizo conclude dunque il suo mandato con un grado di popolarità bassissimo: non solo per l’affaire della First Quantum Minerals ma anche per il fatto di lasciare il paese in una condizione macroeconomica peggiore rispetto a quando ha assunto il potere.
Il suo candidato alle elezioni di domenica, il vicepresidente José Gabriel Carrizo, non supera il 7% di intenzione di voto in tutti i sondaggi.
Il Canale di Panama: la crisi idrica
Le elezioni panamensi però aprono anche un interessantissimo dibattito intorno al futuro geopolitico della regione centroamericana. La prima grande sfida geopolitica per il futuro governo sarà la gestione del Canale di Panama, un tratto di soli 65 chilometri che attraversa l’istmo centroamericano per collegare l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico, e attraverso il quale passa il 5% del commercio globale.
Secondo le stime dello stesso governo del Panama, gli introiti garantiti dal Canale rappresentano il 20% del PIL del paese.
Dalla metà del 2023 però l’attività di trasporto attraverso i serbatoi che compongono il canale è fortemente limitata a causa della siccità. Il sistema attuale, un vero e proprio gioiello dell’ingegneria mondiale, richiede una enorme quantità d’acqua: l’imboccatura d’ingresso al canale e quella di uscita hanno un dislivello di 28 metri d’altezza, che le navi percorrono attraverso un sistema di chiuse che vengono colmate d’acqua per permettere alle imbarcazioni di salire fino al livello del tramo successivo.
Il passaggio da una parte all’altra del canale dura circa 10 ore, e si calcola che per ogni nave che lo percorre si utilizza la stessa quantità d’acqua che consumano mezzo milione di residenti panamensi in un giorno. La siccità attuale, dovuta al fenomeno climatico di El Niño e che, come conseguenza del cambiamento climatico sta provocando serissimi inconvenienti in tutta la regione, ha ridotto la quantità di imbarcazioni che possono attraversare l’istmo ogni giorno dalle 38 del 2022 alle 32 attuali. Si prevede che, se la situazione idrica nella zona non migliora, il traffico dovrà essere ridotto ulteriormente, con gravissime ricadute sul commercio internazionale.
Tra le problematiche del futuro governo vi è dunque anche l’espansione del Canale attraverso una serie di nuove ampliazioni nella zona di Río Indio che permetterebbe di far giungere alle chiuse un maggior carico d’acqua e quindi di aumentare il traffico di circa 12-15 imbarcazioni in più al giorno.
La costruzione però richiederebbe un investimento di circa 900 milioni di dollari, e la discussione parlamentare sarebbe sicuramente ostica: già in passato infatti vi furono numerosi scandali intorno all’aumento dei prezzi dall’ultimo allargamento fatto al Canale concluso nel 2016, per non parlare poi della ferrea opposizione che scaturisce contro un simile piano per l’impatto ambientale che avrebbe. Eppure, a causa della siccità, senza una nuova fonte d’acqua che alimenti i serbatoi del Canale, sarebbe impossibile sostenere i livelli di trasporto standard mantenuti sin qui.
Le alternative all’uso del Canale di Panama sono costosissime. Il 57% delle merci che vi passano provengono dal Mar Cinese del Sud, dirette alla costa est degli Stati Uniti. In caso di chiusura a Panama, i container dovrebbero approdare sulla costa est del continente americano per essere trasportati via terra fino ai porti della costa Ovest.
Salvo alcuni tratti dell’istmo centroamericano su territorio messicano, dove sono però estremamente attivi i cartelli del narcotraffico, non vi sono zone che possiedano l’infrastruttura necessaria per realizzare un simile tragitto limitando i costi.
Un progressivo deterioramento dell’attività del Canale potrebbe portare certo i governi di Messico e Colombia, i due principali paesi bi-oceanici dell’America Latina, ad investire a lungo termine per modernizzare la propria infrastruttura di porti e di trasporti terrestri tra una costa e l’altra.
Già nei primi anni 2000 un progetto simile era stato pensato dai governi che formano parte del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), che intendevano collegare i porti di Buenos Aires, Montevideo e Santos con quelli di Cile e Perù, progetto poi fallito a causa delle discrepanze interne al blocco.
L’alternativa per le imbarcazioni provenienti dal sudest asiatico sarebbe altrimenti risalire l’Oceano Indiano fino al Mar Rosso, e attraverso il Canale di Suez far giungere i container al Mar Mediterraneo e da lì all’Atlantico. Ma anche in questo caso i costi e i tempi risulterebbero elevatissimi.
L’immigrazione: la crisi della Selva del Darièn
L’altra grande sfida geopolitica per il futuro presidente del Panama è la questione dell’immigrazione. Da qualche anno il paese si è trasformato in un paese di transito per i migranti che dalla Colombia cercano di raggiungere il Messico per arrivare poi negli Stati Uniti. Si tratta soprattutto di venezuelani e haitiani, che dalla Colombia attraversano a piedi 266 chilometri della pericolosissima Selva del Darién da sud verso nord. Secondo le cifre ufficiali, solo nel 2023 sono stati 520.000 i migranti che hanno scelto questa via per arrivare fino agli Usa.
Il principale candidato alle elezioni di domenica, José Raúl Mulino, ha già annunciato che impedirà questo flusso: “Se vince Trump magari gli chiedo un po’ di cemento per fare un altro muro. Chiuderemo il Darién e rimpatrieremo tutte queste persone”, ha sostenuto Mulino in campagna elettorale.
La politica migratoria è sicuramente uno dei temi che si guardano con maggior preoccupazione dagli Stati uniti in vista delle elezioni di domenica, e che però dovrà essere declinato anche in funzione dei risultati delle elezioni americane di novembre.
Tra Pechino e Washington
Vi è poi un’ulteriore questione che preoccupa Washington, ed è la relazione del proprio vicino con Pechino. Nel giugno del 2017 Panama ha tagliato i ponti con Taiwán e si è piegata alla politica di “una sola Cina” voluta dalla Repubblica Popolare.
Solo un anno più tardi si è trasformato nel primo paese latinoamericano a far parte della Belt and Road Initiative cinese. Da allora gli investimenti cinesi nel paese si sono moltiplicati a dismisura: nel 2018 le esportazioni panamensi verso la Cina erano di 46 milioni di dollari all’anno, nel 2022 la cifra è arrivata a 1,2 miliardi.
La principale spiegazione di questo salto è data dall’ingresso del gigante asiatico nel settore dell’estrazione di rame ed altri minerali a Panama, a cui si aggiungono investimenti nella Zona Libera di Colón e investimenti nel settore finanziario.
Il presidente uscente Cortizo ha aperto i negoziati con Pechino per un Trattato di Libero Scambio, che il prossimo governo dovrà riprendere nella seconda metà di quest’anno.
Panama fa parte della zona che Washington considera da sempre il proprio hinterland in termini di sicurezza, un circolo cha ha al proprio centro il territorio statunitense e include dal Canada alla Colombia e tutti i paesi che si affacciano sul mar dei Caraibi, considerato dagli Usa il “Mediterraneo Americano”. L’espansione cinese in questa zona, di cui Panama è il principale esponente ma che include certamente anche El Salvador e Venezuela, è vista non solo come l’incursione di un competitor di peso sul piano degli investimenti e l’infrastruttura ma soprattutto come un problema di sicurezza. Dietro alle aziende minerarie, finanziarie e commerciali cinesi, secondo Washington, vi è il governo della Repubblica Popolare e il suo esercito.
Il futuro di Panama è dunque un dossier molto ricco dal punto di vista geopolitico, e molti attori internazionali sono oggi attenti al risultato di domenica.
Una chiave potrebbe essere il voto dei giovani: protagonisti inaspettati delle grandissime manifestazioni del 2023 in difesa dell’ambiente e dei diritti di contadini e indigeni, oggi i minori di 40 anni rappresentano il 48% dell’elettorato. Insomma, sebbene la tendenza sia chiara, non si possono escludere grandi sorprese.
Si terranno questa domenica le elezioni generali a Panama, paese chiave nella geopolitica del continente americano, il cui il panorama elettorale fa presagire incertezza nel futuro prossimo. Il candidato che fino a febbraio appariva in cima a tutti i sondaggi, l’ex presidente Ricardo Martinelli, è stato infatti escluso dai comizi a causa di una condanna a 10 anni di prigione per un caso di riciclaggio e corruzione iniziato negli Usa.
I figli di Martinelli, Ricardo Alberto e Luis Enrique Martinelli Linares, avevano già confessato a un tribunale di New York di aver intascato circa 28 milioni di dollari grazie alla rete di corruzione costruita in America Latina dal colosso brasiliano Oderbrecht. Questa settimana l’ex presidente, auto esiliatosi presso l’ambasciata del Nicaragua a Panama City, ha chiuso la campagna elettorale con un video di appoggio a José Raúl Mulino, che era suo candidato a vicepresidente fino alla conferma della condanna da parte della corte suprema. Mulino è in testa a tutti i sondaggi col 35% delle preferenze, seguito da un altro ex presidente, Martín Torrijos, figlio del generale Omar Torrijos Herrera che ha governato il paese tra il 1968 e il 1981, e fondatore di uno dei movimenti più popolari del paese.