Le battaglie decisive contro il segregazionismo si sono svolte qui. Da allora lo Stato è diventato una roccaforte Repubblicana. Fino a ieri, quando la mobilitazione degli elettori neri ha consegnato il seggio di Senatore al democrat Jones. E se perde in Alabama, la destra può perdere ovunque
Il 7 marzo del 1965 un gruppo di circa 500 attivisti neri si radunò davanti alla Brown Chapel di Selma, Alabama, per dirigersi verso Montgomery, la capitale dello Stato. La marcia, la prima di una serie, era organizzata per protestare contro l’uccisione di Jimmy Lee Jackson da parte di un poliziotto locale, dentro un caffè dove si era rifugiato in seguito alla carica brutale degli state troopers contro un’altra manifestazione per i diritti civili. La violenza della polizia dello Stato del sud governato dal segregazionista democratico George Wallace – che verrà rieletto molte volte, l’ultima, da razzista pentito e rinato in Cristo nel 1983 – non si fece attendere neppure a Selma: la prima marcia passa alla storia come quella della bloody sunday.
In quegli anni l’Alabama è il centro dello scontro tra movimento per i diritti civili e istituzioni razziste, in più di un’occasione sono le autorità federali a far applicare con la forza il diritto a registrarsi al voto o quello a frequentare le scuole e le università non più segregate. Rosa Parks che si rifiuta di alzarsi dal posto dei bianchi su un autobus è dell’Alabama, Vivian Malone Jones è la prima studentessa nera a laurearsi in Alabama nel ’65 dopo che due anni prima Wallace aveva cercato di impedirne l’iscrizione all’Università. È in quegli anni che il partito democratico, divenuto il partito dei diritti civili – e che governava ovunque nella zona -, perde il Sud per sempre.
Se vogliamo sottolineare l’importanza della vittoria di Doug Jones, il neo-senatore democratico dell’Alabama che ha sconfitto per poche migliaia di voti l’imbarazzante destrorso e molestatore di giovani Roy Moore, dobbiamo partire proprio da quegli anni. Non perché l’Alabama sia ancora quello di allora, ma perché lo Stato è l’emblema di un certo modo di intendere i rapporti tra gruppi diversi, è conservatore nel midollo, e perché qui i repubblicani comandano ovunque. Qui Trump ha vinto con 28% di scarto solo un anno fa. L’ultima vittoria democratica per un seggio senatoriale risale al 1992, quando il candidato presidente era l’ex governatore del vicino Arkansas, Bill Clinton. Il senatore vincente, Shelby, passò in fretta ai repubblicani e riconquistò il seggio sei anni dopo con il partito dell’elefantino.
Nella vittoria di Jones, un democratico moderato che sostiene di voler trovare accordi e soluzioni comuni con il partito avversario, l’eco dei diritti civili è forte per diverse ragioni. Il lavoro più importante del neo-senatore è stato quello di procuratore dello Stato e da quel posto, nel 2000, ha aperto un processo e condannato i suprematisti bianchi colpevoli dell’attentato dinamitardo alla chiesa battista della sedicesima strada di Birmingham nel 1963. In quell’attacco morirono quattro bambine ma fino all’inchiesta di Jones nessuno era stato condannato. Quel processo fu importante perché costrinse lo Stato e l’America a fare i conti con il proprio riprovevole passato, una riflessione che sta tornando prepotentemente attuale in questi anni con la pubblicazione di studi, romanzi, film sulla formazione degli Stati Uniti e il loro passato schiavistico.
Il secondo aspetto per cui i diritti civili c’entrano riguarda quella che si chiama voter suppression ovvero i tentativi del legislatore e dell’amministratore repubblicano di fare in modo che gli appartenenti alle minoranze non votino. Ci sono leggi che richiedono cose complicate, c’è la polizia che circola nel tuo quartiere con fare intimidatorio, ci sono falsi messaggi sms che indicano come il tuo seggio sia cambiato, ci sono cancellazioni arbitrarie dalle liste elettorali. L’Alabama primeggia in quanto a queste pratiche, che si sono ripetute anche ieri.
Il terzo aspetto per cui la vittoria di Jones è collegata da un filo rosso agli anni dei diritti civili è lo sforzo fatto in questa elezione – e non nel 2016 – di portare le minoranze a votare (i neri sono circa un quarto della popolazione, gli ispanici meno del 2%): telefonate a tutti i non elettori del 2016, annunci mirati, porta-a-porta, lavoro nelle scuole e nelle università, trasporti per recarsi ai seggi, lavoro battente da parte delle chiese battiste, che hanno un ruolo cruciale nel mobilitare il voto afroamericano. Il tutto finanziato dal partito centrale, che ha speso fondi per organizzare il lavoro sul campo invece di comprare spazi Tv. Si dice che si tratti della filosofia del nuovo capo dell’organizzazione Dem Tom Perez, uomo di Obama.
Il lavoro ha pagato. Il 98% delle donne nere e il 93% dei maschi ha votato per Jones e la partecipazione al voto dei neri è stata alta: il totale degli elettori è infatti il 29% mentre gli aventi diritto sono il 25%. Di solito non va così. La seconda colonna del voto democratico sono i giovani sotto i 44 anni che hanno votato democratico al 60%. Come sempre l’istruzione è un fattore che porta voti al partito di Obama, Clinton e Sanders e, come sempre, le donne bianche votano più Dem che non i maschi bianchi (in entrambe le categorie comunque ha vinto Moore). Nelle città vincono i democratici, nelle aree rurali i repubblicani. Ovvero, ai Dem resta il problema che gli ha fatto perdere le elezioni nel 2016 ma possono cercare di arginarlo con un lavoro sul terreno e con candidati in sintonia con i collegi.
Dal punto di vista politico generale la sconfitta di Moore è un pugno sui denti a Donald Trump, che aveva sostenuto il candidato nonostante diverse figure del suo partito lo avessero scaricato – compreso il senatore anziano dell’Alabama, Shelby (lo stesso di cui abbiamo detto sopra, rieletto più volte come repubblicano).
Il colpo più duro lo prende però Steve Bannon, ideologo della destra del trumpismo che, pur essendo uscito dallo staff presidenziale, continua ad esercitare un’influenza enorme sulle scelte e sui toni della Casa Bianca e che si era speso molto per l’elezione di Moore.
Terzi sconfitti sono i repubblicani in Senato, che si trovano con un seggio in meno e guardano con orrore alle elezioni di midterm del 2018: se si perde in Alabama si può perdere ovunque.
Certo, Moore era un candidato particolarmente squalificato e squalificante, ma aveva vinto le primarie del partito grazie a una destra conservatrice che è più militante e partecipa in massa a quegli appuntamenti. Riusciranno i repubblicani a non trovarsi con altri candidati così l’anno prossimo? Probabile: gli eletti in genere si ripresentano. Certo, molti potrebbero anche decidere di saltare un giro per non rischiare di finire come Moore. E la destra potrebbe trovarsi con altri candidati estremi in grado di vincere le primarie. Molto conterà l’atteggiamento di Trump: aiuterà i suoi fratelli-coltelli repubblicani moderati o farà loro i dispetti come in Alabama?
Prima ancora di scoprire cosa succederà tra un anno scopriremo se e quanto i repubblicani rispetteranno l’etichetta politica. Si tratta di un passaggio importante: il destino della riforma fiscale su cui il gruppo al Senato e quello alla Camera hanno trovato un’intesa – che taglia le tasse ai ricchi e che secondo le analisi non partisan produrrà molto altro deficit – è appeso a due voti. La maggioranza oggi è 51 a 49, basterebbe un passo indietro della senatrice del Maine Collins, su cui le pressioni sono forti, per rendere il passaggio della legge molto complicato. Si tratta dell’unica cosa che i repubblicani sono riusciti a votare in un anno e, nonostante si tratti di un testo impopolare, ne hanno un bisogno tremendo. Per questo potrebbero decidere di votarlo prima che Jones si insedi nel 2018. Sarebbe uno sgarbo all’etichetta. Solo un anno fa il partito si rifiutò di votare l’insediamento del giudice scelto da Obama per la Corte Suprema perché lo stesso era nel suo ultimo semestre di presidenza. Prima gli elettori devono decidere il nuovo presidente, dicevano i repubblicani. Che negli ultimi anni tendono a torcere le norme e le consuetudini a loro piacimento. Probabile quindi che non avranno la buona educazione di aspettare Jones e cerchino di portare la riforma fiscale al voto prima di Natale.
@minomazz
Le battaglie decisive contro il segregazionismo si sono svolte qui. Da allora lo Stato è diventato una roccaforte Repubblicana. Fino a ieri, quando la mobilitazione degli elettori neri ha consegnato il seggio di Senatore al democrat Jones. E se perde in Alabama, la destra può perdere ovunque
Il 7 marzo del 1965 un gruppo di circa 500 attivisti neri si radunò davanti alla Brown Chapel di Selma, Alabama, per dirigersi verso Montgomery, la capitale dello Stato. La marcia, la prima di una serie, era organizzata per protestare contro l’uccisione di Jimmy Lee Jackson da parte di un poliziotto locale, dentro un caffè dove si era rifugiato in seguito alla carica brutale degli state troopers contro un’altra manifestazione per i diritti civili. La violenza della polizia dello Stato del sud governato dal segregazionista democratico George Wallace – che verrà rieletto molte volte, l’ultima, da razzista pentito e rinato in Cristo nel 1983 – non si fece attendere neppure a Selma: la prima marcia passa alla storia come quella della bloody sunday.