Oggi i cittadini della Repubblica Ceca tornano alle urne, pronti a premiare i partiti alternativi, uniti solo dall’opposizione al sistema. E per il favorito Andrej Babis, l’oligarca che si ispirava a Obama e ora predilige Trump, potrebbe essere complicato trovare alleati di governo
All’inizio del mese, e in vista delle elezioni politiche del 20 e 21 ottobre, la Ong ceca People in Need ha condotto una simulazione elettorale tra i ragazzi non ancora maggiorenni delle scuole superiori di tutto il Paese. A quarantamila di loro è stato chiesto di rivelare il nome del partito dal quale si farebbero rappresentare in Parlamento, se avessero il diritto di voto.
Il più premiato, con il 24,5%, è stato il Partito pirata (Česká pirátská strana). Guidata da un esperto informatico con i capelli rasta, Ivan Bartoš, questa formazione è nata nel 2009 e fa della contestazione al sistema e ai partiti classici la sua ontologia.
Nel programma i punti più insistiti sono la democrazia diretta (ci si ispira al modello svizzero), la trasparenza delle istituzioni, il più ampio accesso possibile a Internet e la sua democratizzazione, la liberalizzazione delle droghe leggere, lo smantellamento dei monopoli e la possibilità di mandare a casa i parlamentari che non si dimostrano all’altezza.
Difficile che un partito così non piaccia ai giovani, e quindi quel 24,5% non stupisce troppo. Il punto però è che i pirati cechi di voti – voti veri, di elettori veri – ne prenderanno parecchi. Gli ultimi sondaggi li danno vicini all’8%, mole di preferenze che garantirebbe loro diciassette seggi, a fronte dei duecento totali della Camera dei deputati. Sarebbe un risultato incredibile per un partito che finora ha avuto un solo rappresentante in Parlamento: un senatore, Libor Michálek, eletto nel 2012 (le elezioni della camera alta non coincidono con quelle della bassa).
A occhio viene da dire che lo scatto dei pirati sia una delle tante variabili della tendenza, europea e mondiale, di disaffezione dell’elettorato nei confronti dei partiti tradizionali. È certamente vero, ma in Repubblica Ceca le conseguenze sono estremizzate. Le elezioni del 20 e 21 ottobre potrebbero sancire infatti il “sorpasso” dei partiti alternativi, fondati negli ultimi anni, nei confronti di quelli storici. L’avanzata, insomma, non è solo dei pirati.
Ma andiamo per ordine. Il Partito civico-democratico e quello socialdemocratico, che dal 1989 a oggi hanno dominato la scena politica ceca, galleggiano rispettivamente appena sotto e appena sopra la linea del 10%. I comunisti non si schiodano dall’11-12%. I liberali di Top 09 si attestano sul 7%. Mentre l’Unione cristiano-democratica, forza-pendolo che ha partecipato a molti governi dalla caduta del regime comunista, rischia di non superare lo sbarramento del 5%. Se non lo facesse, per gli alternativi il sorpasso sarebbe quasi certo.
Oltre ai pirati (7-8%), tra i partiti non tradizionali figura Libertà e democrazia, formazione di conio abbastanza recente diretta dell’imprenditore ceco-giapponese Tomio Okamura, un sovranista anti-immigrati. Rischia di prendere il 10%. Okamura, che da bambino ha sofferto tremendamente per via del bullismo, e che da adulto ha avuto successo nel turismo, pensa che l’Europa sia un’entità dittatoriale, persino peggiore dell’Unione sovietica. Invita la gente a non mangiare kebab e a portare cani e maiali davanti alle moschee, come ricorda l’agenzia Bloomberg in un ritratto dedicato a questo politico.
E poi c’è il grande favorito della tornata: l’oligarca Andrej Babiš con il suo partito Ano (Sì in lingua ceca), che potrebbe incassare lo stesso numero di voti che gli studenti hanno assegnato ai pirati. Babiš, il secondo uomo più ricco del Paese, è sceso in politica nel 2012 predicando lotta senza quartiere alla casta politica. L’anno successivo, alle elezioni, andò in doppia cifra pretendendo per il suo partito un posto nella coalizione a guida socialdemocratica e per sé il ministero delle Finanze. A quel tempo Babiš si ispirava a Obama, mentre oggi ammira Trump e il premier ungherese Viktor Orbán, contesta i burocrati europei e non vuole saperne di ospitare migranti.
Tutti lo danno come futuro premier. Ma è difficile che si prenda Okamura come alleato. E ancor più remota è l’ipotesi che negozi con Ivan Bartoš: i pirati vogliono stare all’opposizione. Il blocco alternativo è solo un insieme di partiti, una definizione che si distingue e separa da quelli tradizionali. Per il resto, manca colla.
Non è facile spiegare l’ascesa di queste formazioni. I flussi elettorali e d’opinione nella Repubblica Ceca sono in apparenza poco logici. Il Paese, tra i membri di più recente adesione dell’Ue, che come tenore di vita e redditi si avvicina più alla media europea. Ma anche quello dove l’indifferenza verso l’Europa è maggiore.
In un articolo del 2014 pubblicato su Open Democracy, il politologo Jan Hornát attribuiva ciò al peso della storia. “I cechi si sentirono oppressi al tempo dell’Austria-Ungheria, e traditi sia quando gli alleati occidentali li abbandonarono a Monaco nel 1968, sia quando i sovietici invasero la Cecoslovacchia nel 1968. In tutti questi casi, potenze straniere hanno dettato ai cechi le condizioni, e questa esperienza si è integrata nella psiche nazionale”.
Potrebbe contare anche un discorso di promessa tradita, comune in tutta l’Europa Centrale. Questi Paesi hanno conosciuto un indiscutibile progresso economico da quando sono entrati in Europa, ma l’idea iniziale, ovvero raggiungere in pochi anni gli standard occidentali, si è rivelata troppo ottimistica. Sono subentrati un po’ di frustrazione e di senso di ingiustizia. E anche questa è una chiave per capire il successo di questi partiti, tra loro diversi, accomunati da una postura anti-establishment.
Oggi i cittadini della Repubblica Ceca tornano alle urne, pronti a premiare i partiti alternativi, uniti solo dall’opposizione al sistema. E per il favorito Andrej Babis, l’oligarca che si ispirava a Obama e ora predilige Trump, potrebbe essere complicato trovare alleati di governo