
L’esodo di milioni di Rohingya rende il confine tra Bangladesh e Myanmar teatro di un’emergenza umanitaria che si impone a fatica sullo scenario globale. E ora un’inchiesta della Bbc accusa le Nazioni Unite di aver inizialmente osteggiato la sensibilizzazione internazionale.
Un’imbarcazione con a bordo decine di Rohingya è affondata stamattina al largo delle coste bangladeshi. Mentre scriviamo, il bilancio provvisorio conta 12 morti, 10 bambini e due donne. Si tratta dell’ultima cattiva notizia arrivata dal confine che divide Bangladesh e Myanmar, teatro negli ultimi mesi di un’emergenza umanitaria che, seppur numericamente imponente, a fatica riesce a imporsi nell’agenda della comunità internazionale.
La persecuzione dei Rohingya, etnia a maggioranza musulmana residente nello stato birmano del Rakhine, da parte dell’esercito birmano è in corso da oltre cinque anni e, dallo scorso 25 agosto, è entrata in una fase ulteriormente drammatica quando centinaia di migliaia di Rohingya in fuga dalle loro terre si sono riversati in territorio bangladeshi. Un esodo causato dalla rappresaglia operata dall’esercito birmano in seguito a una serie di attacchi coordinati a posti di polizia portata a termine dall’Arakan Rohingya Salvation Srmy (ARKA), un gruppo armato formato a difesa dell’etnia considerato dal governo di Naypydaw alla stregua di un’organizzazione terroristica.
Al momento i rifugiati Rohingya in territorio bangladeshi sfiorano il milione di unità, di cui almeno mezzo milione arrivati nell’ultimo mese e mezzo, in fuga da rastrellamenti operati dalle truppe regolari birmane che, secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani, sono da considerarsi vera e propria pulizia etnica. Essendo il Myanmar paese a maggioranza buddhista, la ragione di fondo dell’odio contro i Rohingya generalmente si riconduce a motivi religiosi, utilizzando episodi di criminalità che coinvolgono i Rohingya per giustificare l’intervento delle forze dell’ordine. Se certamente, a livello popolare, ciò può sembrare una ricostruzione verosimile, un recente articolo apparso sul portale accademico The Conversation introduce un elemento di «business» legato allo sfruttamento delle terre del Rakhine state da parte di società legate alla giunta militare al potere in Myanmar fino al 2015, e ancora molto influente. Una variabile di cui è necessario tenere conto.
Sul fronte internazionale e umanitario, col governo bangladeshi in procinto di creare «il più grande campo profughi al mondo» per ospitare i Rohingya nella speranza di una soluzione alla crisi – che, secondo Dhaka, deve trovare il Myanmar -, l’inazione di Aung San Suu Kyi nel merito della mattanza Rohingya ha destato indignazione generale, soprattutto per l’investitura del premio Nobel per la Pace che la de facto leader del Myanmar democratico ricevette nel 1991. Pur trattandosi di una persecuzione in atto da anni, Aung San Suu Kyi non si è mai espressa categoricamente contro le azioni dell’esercito birmano né ha denunciato esplicitamente le persecuzioni contro i Rohingya, tema particolarmente scomodo e in controtendenza rispetto alla «success story» di un ex dittatura militare finalmente riportata sui binari della democrazia e in procinto di «aprirsi al libero mercato».
Il caso Rohingya, secondo una lunga inchiesta di Jonah Fisher pubblicata da Bbc, sarebbe addirittura stato inizialmente insabbiato dalle stesse autorità delle Nazioni Unite in Myanmar, d’accordo col governo locale, vietando al proprio personale sul campo di visitare le zone dello stato Rakhine dove erano in corso i rastrellamenti, osteggiando la sensibilizzazione internazionale sul tema e isolando chi, contravvenendo alle «direttive dall’alto» cercava di portare all’attenzione della comunità internazionale il rischio «pulizia etnica» nel Rakhine.
Caroline Vandenabeele, cooperante in forze alle Nazioni Unite in Myanmar fino al 2015, intervistata da Fisher racconta di come il tema Rohingya fosse considerato ufficialmente «tabù» dai vertici della missione dell’Onu nel paese, per timore di creare problemi al governo locale: «Se ne poteva parlare, certo, ma aveva delle conseguenze. Delle conseguenze negative. Non venivi più invitato alle riunioni di lavoro, i permessi per viaggiare nel paese venivano revocati. Ad alcuni colleghi hanno direttamente tolto dei progetti e sono stati umiliati pubblicamente durante le riunioni. Si era venuta a creare un’atmosfera per cui parlare di queste cose era diventato impossibile».
Nonostante dalla sede centrale Onu una serie di rapporti sullo stato delle operazioni in Myanmar giudicassero «disfunzionale» la missione nel paese, Renata Lok-Dessallien – all’epoca dei fatti a capo della missione Onu in Myanmar e, secondo Vandenabeele e altri colleghi, responsabile dell’insabbiamento del caso Rohingya – è tutt’ora a capo della missione Onu in Myanmar, dopo che il governo locale ha respinto la nomina del suo successore.
Dessalien, riporta Bbc, ha rifiutato la richiesta di intervista inoltrata da Fisher e ha declinato ogni commento rispetto all’articolo pubblicato.
@majunteo
L’esodo di milioni di Rohingya rende il confine tra Bangladesh e Myanmar teatro di un’emergenza umanitaria che si impone a fatica sullo scenario globale. E ora un’inchiesta della Bbc accusa le Nazioni Unite di aver inizialmente osteggiato la sensibilizzazione internazionale.