Dopo il referendum nel Kurdistan iracheno, Ankara teme l’effetto domino. Il presidente è volato a Tehran in cerca di un fronte comune. Ma il prezzo delle sanzioni contro Erbil è altissimo per i turchi. Che temono di perdere anche la leadership economica sulla regione.
Inutile nasconderlo. A pagare le conseguenze più alte della chiusura dei confini con la regione curda dell’Iraq sarà la Turchia. Più dell’Iran, più di Baghdad. La vittoria del sì al referendum curdo dello scorso 25 settembre pesa su Erdoğan come una spada sul cuore, e il Rais sta tentando il tutto per tutto per scongiurare la perdita degli introiti da capogiro che transitano quotidianamente dal valico turco-iracheno di Ibrahim Khalil.
Rimandata da mesi, la visita mercoledì al presidente iraniano Hassan Rouhani si è rivelata necessaria per elaborare una strategia di sanzioni condivisa, capace di mettere al muro le aspirazioni indipendentiste dei curdi iracheni e di farli tornare sui propri passi. Tehran e Ankara mettono da parte le ataviche differenze di vedute per lavorare a un obiettivo più grande: soffocare sul nascere un eventuale effetto domino che potrebbe prodursi sulle minoranze curde dei rispettivi Paesi.
Non sono bastate le dure dichiarazioni di Erdoğan di sabato scorso, quando, in merito ai risultati referendari, ha detto ai membri del suo partito Akp: “Non stanno formando uno stato indipendente, bensì aprendo una ferita nella regione e girandoci dentro il coltello”. Il presidente turco non ha rinnegato i rapporti commerciali con il Kurdistan iracheno – terzo mercato dopo Germania ed Emirati Arabi secondo dati dell’associazione degli imprenditori e industriali turchi e iracheni, – ma ha fatto presente che le condizioni sono cambiate e che le autorità di Erbil, a cui Ankara aveva fornito tutto il proprio sostegno, hanno intrapreso una strada che i turchi non possono assecondare.
“Li ridurremo alla fame” deve essere sembrata un’espressione troppo poco diplomatica, tant’è che Erdoğan si è affrettato a specificare che le misure che la Turchia intende intraprendere non riguarderanno i civili, ma si concentreranno sui partiti e le istituzioni che hanno organizzato il referendum. Ankara non solo non addestrerà più i peshmerga contro l’Isis, ma chiuderà anche i confini terrestri se Erbil non farà un passo indietro. Difficile immaginare che il taglio delle relazioni commerciali non avrebbe effetti sulla vita di oltre quattro milioni di persone. Se non altro per il fatto che le merci turche, dagli alimenti alle costruzioni, riempiono la quasi totalità del mercato della regione curda irachena. La Turchia è il principale partner commerciale del Kurdistan iracheno, ed è responsabile di oltre la metà della sua attività di costruzione, che comprende strade, gallerie, silos, dighe, progetti immobiliari e i due aeroporti del territorio. Più di 1.400 aziende turche operano nella regione producendo introiti per oltre 5 milioni di dollari l’anno, e nei primi sei mesi di quest’anno la Turchia ha esportato in Kurdistan beni per un valore di 4milioni e mezzo di dollari.
Il referendum ha riportato in auge anche la questione della zona contesa di Kirkuk, dove si trova una considerevole presenza turkmena e da dove parte l’oleodotto diretto al porto turco di Ceyhan, attraverso il quale passano milioni di barili di petrolio ogni giorno. “Vediamo attraverso quali canali invierà il suo petrolio, o dove lo venderà. Il rubinetto lo abbiamo noi” ha detto il Primo ministro turco Binali Yildirum. I dati ufficiali dell’Istituto Turco di Statistica, TUIK comprendono anche gli scambi con l’Iraq, non è quindi possibile estrapolare i numeri del commercio con il Kurdistan iracheno. Nel 2013 le esportazioni verso l’Iraq hanno toccato quota 11.9 milioni di dollari, ma a causa dell’instabilità dell’area sono scese a 8 milioni nel 2016. La prima metà di quest’anno segna invece un rialzo del 20%.
Ad Ankara non deve essere neanche sfuggita la discreta presenza del Pkk a Kirkuk che, come scrive Fehim Tastekin su Al Monitor non (conta) più di 500 persone, ma la rete di simpatia potrebbe espandersi in caso di turbolenze”. Erdoğan non ha perso tempo ad allinearsi con Baghdad per assicurarsi che la ricca area petrolifera rimanga sotto il suo controllo. Lo spauracchio curdo va a braccetto con il timore di perdere la leadership economica sulla regione.
Pensare che solo nel 2013 il presidente turco aveva invitato il leader curdo Barzani a Diyarbakir per un incontro storico: “Stiamo costruendo una nuova Turchia” aveva detto, mentre il Ministero degli esteri aveva iniziato a far riferimento all’Iraq settentrionale con il nome di “Governo regionale del Kurdistan”. La Turchia, che si era avviata lungo un difficile processo di pace con il Pkk, avrebbe potuto diventare un modello di coesione etnica e confessionale, ma l’idea di una patria turco- curda è naufragata insieme a tutto l’apparato democratico del Paese. (2- segue)
@linda_dorigo
Fotografa, giornalista e documentarista, Linda Dorigo dal 2014 lavora ad un progetto editoriale sull’identità del popolo curdo in Iraq, Iran, Siria e Turchia. Questo è il secondo di una serie di articoli per eastwest.eu dedicati alle questione curda dopo il referendum per l’indipendenza.
Dopo il referendum nel Kurdistan iracheno, Ankara teme l’effetto domino. Il presidente è volato a Tehran in cerca di un fronte comune. Ma il prezzo delle sanzioni contro Erbil è altissimo per i turchi. Che temono di perdere anche la leadership economica sulla regione.
Inutile nasconderlo. A pagare le conseguenze più alte della chiusura dei confini con la regione curda dell’Iraq sarà la Turchia. Più dell’Iran, più di Baghdad. La vittoria del sì al referendum curdo dello scorso 25 settembre pesa su Erdoğan come una spada sul cuore, e il Rais sta tentando il tutto per tutto per scongiurare la perdita degli introiti da capogiro che transitano quotidianamente dal valico turco-iracheno di Ibrahim Khalil.