Esercito o democrazia
In quattro anni, l’esercito è riuscito a imporre una sorta di stabilità in un Paese diviso. Ora si torna al voto, come si comporteranno i militari?
In quattro anni, l’esercito è riuscito a imporre una sorta di stabilità in un Paese diviso. Ora si torna al voto, come si comporteranno i militari?
Stavolta sembra proprio essere quella buona. Dopo aver visto rimandare di anno in anno il ritorno alle urne previsto in teoria già nel 2015, la Thailandia si appresta a rinnovare il Parlamento e quindi a eleggere il successore di Prayuth Chan-ocha, il generale a capo della giunta che ha preso il potere con il golpe del maggio 2014. Per l’establishment di Bangkok è il primo capitolo di una “democrazia alla thailandese” ripulita dalla nefasta influenza dell’ex premier Thaksin Shinawatra. Ma tra gli analisti il consenso è unanime: si andrà al voto con un sistema che nel frattempo è stato truccato, e che cementerà la supremazia dell’esercito per decenni.
La finestra indicata per il voto dura tre mesi. Sul calendario al momento c’è il 24 febbraio, ma il periodo utile si estende fino a maggio. E visti i precedenti, ulteriori rinvii non sono da escludere. Dietro pretesti multipli legati prima alla tempistica necessaria per far approvare la Costituzione stilata dall’esercito, poi ai vari atti che hanno preparato il terreno legislativo, la giunta di Prayuth ha spostato più in là il ritorno alle urne con in mente due obiettivi. Il primo: estirpare il clan dei Shinawatra e la sua presa sull’elettorato rurale del popoloso nord, chiave di tutte le sue vittorie alle elezioni dal 2001. Di conseguenza, il secondo: costruire una base di consenso per Prayuth, per andare al voto solo quando una vittoria sarà considerata alla portata.
Nell’ultimo anno la strategia è stata evidente. Mentre per i rivali era ancora proibito svolgere attività politica, Prayuth si è lanciato in un tour delle province in piena campagna elettorale, dispensando fondi pubblici per progetti locali in particolare nei collegi-feudo di Thaksin: una pallida copia della stessa strategia della sua nemesi, che con le sue politiche a favore delle campagne si attirò l’ira dell’élite e della borghesia di Bangkok. “C’è solo un gruppo musicale che può esibirsi. Ad altri gruppi, non ancora scoperti, non è concesso di comporre, esercitarsi e suonare in pubblico”, ha scritto un editorialista del Bangkok Post. Inoltre, dinosauri della politica thailandese con le mani in pasta da decenni hanno usato la loro influenza per fare incetta di influenti signorotti locali che muovono voti.
Il Palang Pracharat (“Partito popolare del potere statale”), messo in piedi dalla giunta, ha dietro a sé l’intera macchina della propaganda, sostenuta dai media. Prayuth, apprezzato da molti per la sua parlata a metà tra il popolano che dice le cose come stanno e lo zio burbero, ha sapientemente coltivato un’immagine di candidato premier “inevitabile”: il leader forte che ha riportato stabilità in un Paese dilaniato per un decennio da divisioni politiche che hanno causato centinaia di morti. E che, sempre per il bene della Thailandia, non si tirerà indietro se gli verrà chiesto di andare avanti.
Per restare al potere, Prayuth non ha neanche bisogno di candidarsi apertamente, perché nel frattempo la Costituzione del 2016 − approvata con un referendum senza che fosse possibile fare campagna per il “no” − ha preparato il campo per una smisurata influenza delle forze armate. Il nuovo sistema elettorale proporzionale produrrà una maggiore frammentazione nella Camera da 500 deputati. I collegi elettorali sono stati ridisegnati, facendo perdere peso specifico al nord pro-Thaksin. E sarà possibile nominare premier anche un non eletto: una norma creata ad arte per Prayuth. Anche nel caso salisse al potere un governo ostile ai militari, i bastoni tra le ruote sono già pronti: il Senato da 250 membri sarà completamente nominato dall’alto. E qualsiasi esecutivo dovrà seguire i dettami del piano di sviluppo ventennale già stilato dalla giunta.
Prayuth non ha rivali di spicco. Il Pheua Thai, di fatto guidato da Thaksin dal suo auto-esilio, è sotto la costante minaccia di essere sciolto dalla magistratura, come già accaduto in passato ad altri due partiti del magnate ed ex premier. Se dovesse succedere è già pronto un movimento nuovo, ma un volto carismatico non c’è. Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin e per tre anni a capo del governo rovesciato dai militari nel 2014 dopo mesi di proteste a Bangkok, è fuggita − probabilmente lasciata fuggire − all’estero per evitare il carcere dopo una condanna per “negligenza” in merito al progetto simbolo del suo governo, ossia un sussidio ai produttori di riso rivelatosi sciagurato per le finanze statali. La rete dei Shinawatra sul territorio è stata severamente colpita dalla giunta, con la chiusura di decine di radio locali e intimidazioni ad attivisti. Non è neanche chiaro quali siano davvero le intenzioni di Thaksin, che non mette piede in Thailandia dal 2008 per sfuggire a una condanna per abuso di potere.
Il partito tradizionalmente forte nella capitale, i Democratici, è in crisi. Il suo leader Abhisit Vejjajiva è stato triturato politicamente dalla giunta: dopo aver dato il suo appoggio alle proteste contro l’amnistia proposta dal governo Yingluck per Thaksin, non si è accorto che quell’instabilità sarebbe stata sfruttata dai militari per emarginarlo una volta al potere. Suthep Thaugsuban, un politico-gangster che portava voti ai Democratici dal sud, ha fondato un partito pro-Prayuth: l’epilogo più scontato, dato che nel 2014 era stato lui a preparare il terreno per il golpe soffiando sul fuoco delle proteste.
In vista delle elezioni si sono registrati decine di partiti, molti dei quali pro-militari: una palese strategia gestita dall’alto per frammentare il Parlamento e poi chiedere a Prayuth di fare ordine. C’è però un’unica vera faccia nuova: quella del giovane magnate Thanathorn Juangroongruangkit e del suo partito Anakhot Mai (“Nuovo futuro”). Punta a raccogliere voti tra quelli che vorrebbero un’alternativa alla guerra tra l’establishment tradizionale e il clan dei Shinawatra. Ma anche se tra la gioventù di Bangkok più informata c’è una certa curiosità verso il progetto di Thanathorn, nel territorio il partito ha appena iniziato a mettere le basi. E c’è anche chi lo accusa di dividere il voto pro-Thaksin, dato che alcune delle idee ricalcano quelle del Phuea Thai. Specie quelle sul contenimento del ruolo dell’esercito: non a caso, appena ha iniziato a fare rumore in merito, Thanathorn è stato intimidito con l’accusa di aver violato la Legge per i reati informatici in un video su Facebook in cui avrebbe “diffuso falsità e minacciato la stabilità del Paese”.
In generale, nella Thailandia che andrà alle urne manca quel trasporto che ci si potrebbe aspettare dopo cinque anni sotto i militari. Per decenni, la propaganda dell’establishment ha instillato nella popolazione un distacco dalla politica, vista come corrotta, coltivando invece una fiducia passiva in un esercito visto come difensore della monarchia: un’istituzione che nella Thailandia buddista è in pratica la religione di stato. La morte del venerato re Bhumibol nel 2016 ha parzialmente placato le ansie dei suoi fedeli. Ora che sul trono c’è il figlio Vajiralongkorn, la disaffezione è diffusa: il nuovo monarca è distante (trascorre gran parte dell’anno nella sua villa in Germania) e con troppe macchie sul suo passato per essere amato da un popolo che per decenni ha condiviso gossip sulle sue bizzarrie. Uno scenario perfetto per Prayuth e l’oligarchia thailandese che non vede minacce al suo tradizionale predominio, nel Paese con il terzo più alto tasso di disuguaglianze al mondo. Ma una coltre grigia sulle speranze di un rinnovamento dal basso.
In quattro anni, l’esercito è riuscito a imporre una sorta di stabilità in un Paese diviso. Ora si torna al voto, come si comporteranno i militari?
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