Pd e M5S sono alle prese con una tappa evolutiva importante. È una prova di maturità per tutti, nuovo Pd e M5S
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
“C’è una maggioranza parlamentare e si è formato un Governo e la parola compete al Parlamento e al Governo che nei prossimi giorni si presenterà alle Camere per chiedere la fiducia e presentare il programma”. Con queste parole il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha annunciato la nascita – in meno di un mese − del Governo Conte bis. Si è trattato, come noto, di un Governo nato dalla crisi della maggioranza politica – composta dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega – in ragione della scelta del leader della Lega Matteo Salvini di chiedere improvvisamente l’8 agosto lo scioglimento anticipato delle Camere.
La nascita del sessantaseiesimo Governo in settantadue anni di storia repubblicana fa così emergere una coalizione quasi completamente alternativa alla precedente, basata cioè su un accordo tra i seguenti partiti: Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Liberi e Uguali, nonché da una costola del Partito Democratico, Italia Viva, formazione guidata da Matteo Renzi nel frattempo autonomizzatasi in componente parlamentare autonoma.
Con una coalizione allora decisamente diversa da quella precedente, cioè fortemente spostata a sinistra, quello che è stato già definito “l’esperimento giallo-rosso” − in contrapposizione, appunto, a quello “giallo-verde” − si presenta come il terzo il tentativo – stavolta riuscito − di far nascere un Governo basato sull’intesa tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico, dopo gli accordi mancati del 2013 e del 2018.
Eppure, forse a riprova, appunto, della forte eterogeneità interna delle componenti politiche e della distanza socio-culturale dei rispettivi elettorati che compongono le due maggiori forze politiche di questo esecutivo, l’esperimento giallo-rosso offre tre elementi di riflessione per capire se è possibile trasformare o meno l’attuale alleanza tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico in qualcosa di più strutturato.
Il primo elemento da tenere in conto è squisitamente politico. Può, infatti, un Governo, formatosi in qualche modo in ragione di un’emergenza di tipo democratico − ossia in negativo, contro il Salvini che, da Ministro degli Interni, nel quadro di una campagna elettorale permanente, invoca “i pieni poteri” – puntare a vivere, anzi a sopravvivere, senza darsi o almeno tentare di darsi una missione in positivo? Insomma, questa compagine di Governo può dar corpo ad una vera e propria alleanza, trasformativa e di lunga durata, oppure dovrà limitarsi, come scriveva un famoso studioso negli anni settanta, a “sopravvivere senza governare”?
Questa è la sfida principale all’esperimento giallo-rosso, nel tentativo di costruire una compatibilità socio-culturale degli elettorati, attraverso scelte politiche di Governo condivise.
Naturalmente, non è sfida da poco. Soprattutto se si hanno di fronte realtà partitiche estremamente fluide: con il Movimento 5 Stelle preda del “programma minimo” alla Bernstein nel noto slogan “il fine è nulla, il movimento è tutto”, e il Partito Democratico che, dopo la scissione di Matteo Renzi, non ha ancora metabolizzato il percorso da intraprendere per rendere quella uscita la meno dolorosa possibile in termini di consenso elettorale.
Fatto si è che, dentro questo stallo reciproco, in attesa anche dell’esito delle elezioni regionali in Umbria di fine ottobre − le prime che vedono schierati insieme, in una alleanza strutturata, il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico – “l’amalgama” ancora non sembra emergere. Anzi, più si va avanti, più i contrasti tra i dirigenti e gli elettori dei rispettivi partiti emergono, a maggior ragione di fronte a eccessi di volontarismo di taluni che, in questa fase embrionale così delicata, improvvidamente arrivano a toccare invece le corde più profonde delle reciproche distanze; come è, ad esempio, la riconferma a candidato sindaco di Roma di Virginia Raggi: una vera e propria provocazione per l’elettorato politico che vota Partito Democratico, a partire da quello romano.
In questi casi, allora, se davvero l’intento è quello della ricerca di un’alleanza più strutturata, la strada da battere non è quella classicamente più politica, ma quella più ordinata e progressiva, basata sulle singole politiche di settore.
Eppure, anche qui − ed è il secondo elemento di riflessione − i problemi non mancano. A partire dal tema della giustizia rispetto al quale le posizioni del Partito Democratico, nell’ottica di un garantismo proprio della sinistra liberaldemocratica, appaiono essere quanto di più distante vi possa essere rispetto alle proposte del Movimento 5 Stelle, espresse innanzitutto dal Ministro Bonafede. Così come, del pari, vi è, naturalmente, anche il tema della incipiente legge di bilancio che, dentro i vincoli stretti di una formulazione che paga il prezzo delle scelte scellerate in termini di costi volute dal Governo precedente (la cui parte rilevante però è il pilastro principale dell’attuale Governo…), sembra essere ancora particolarmente debole sul piano delle scelte strategiche.
Ultimo, ma non ultimo, il tema delle riforme istituzionali e con esso quello di una nuova legge elettorale, necessaria dopo la conferma del patto politico tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, certificato tramite l’approvazione della quarta lettura del disegno di legge di riforma costituzionale che ha previsto la riduzione del numero dei parlamentari, posto che si trattava di un testo chiave per i 5 Stelle ma che, invece, il Partito democratico aveva fortemente osteggiato per le prime tre letture. La sua approvazione, con il voto positivo proprio del Partito Democratico nella quarta lettura, a conferma dell’accordo, richiede ora che faccia seguito la seconda parte, appunto, dell’accordo politico, ossia quelle riforme necessarie per riequilibrare la riduzione del numero dei parlamentari: dalla rivalutazione dei quorum costituzionali per l’elezione del Capo dello Stato, alla riforma dei regolamenti parlamentari, a una nuova legge elettorale.
I segnali, in questo senso, al momento, sembrano volgere verso una piena convergenza di intenti sebbene proprio sulla legge elettorale si misurino le maggiori difficoltà.
Infatti – e è il terzo elemento − l’esperimento giallo-rosso riuscirà a rendere compatibile gli elettorati dei due rispettivi partiti, favorendo un accordo vero, se riuscirà a superare questo dilemma: se la dirigenza politica volesse davvero un’alleanza strutturata, eliminando così il rischio che si formi un polo politico centrale così attrattivo da togliere voti sia a destra sia alla potenziale alleanza di sinistra tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, dovrebbe impegnarsi per favorire il ripristino di un vero sistema bipolare, di coalizione, magari attraverso un sistema elettorale maggioritario a doppio turno con ballottaggio nazionale.
Eppure questo sistema elettorale è apparentemente inviso alla maggioranza dei due rispettivi partiti, molto più favorevoli a una dinamica proporzionale, cioè a pesare i rispettivi elettorati. Del pari e al contrario, se le rispettive dirigenze politiche optassero per un sistema proporzionale, naturalmente verrebbero meno tutti quegli incentivi politico-istituzionali che invece sono utilissimi per favorire un’alleanza strutturata, non emergenziale.
Le scelte da compiere, come si vede, non mancano. E, non a caso, a buon diritto, quello che abbiamo di fronte è stato chiamato un esperimento, la cui compatibilità dovrà essere verificata, prendendo a prestito la frase di un grande storico, nella sua capacità di “rinnovarsi ogni giorno”.
@ClementiF
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Pd e M5S sono alle prese con una tappa evolutiva importante. È una prova di maturità per tutti, nuovo Pd e M5S
La nascita del sessantaseiesimo Governo in settantadue anni di storia repubblicana fa così emergere una coalizione quasi completamente alternativa alla precedente, basata cioè su un accordo tra i seguenti partiti: Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Liberi e Uguali, nonché da una costola del Partito Democratico, Italia Viva, formazione guidata da Matteo Renzi nel frattempo autonomizzatasi in componente parlamentare autonoma.
Con una coalizione allora decisamente diversa da quella precedente, cioè fortemente spostata a sinistra, quello che è stato già definito “l’esperimento giallo-rosso” − in contrapposizione, appunto, a quello “giallo-verde” − si presenta come il terzo il tentativo – stavolta riuscito − di far nascere un Governo basato sull’intesa tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico, dopo gli accordi mancati del 2013 e del 2018.