Quando parliamo di terrorismo islamico pensiamo quasi esclusivamente al Medio Oriente. Ma in realtà «nessun continente è escluso ed è per questo che dobbiamo definirlo una minaccia globale». Per capire come l’estremismo si muove, come si finanzia e dove sta crescendo, Eastonline ha intervistato Matteo Bressan, Stefano Felician Beccari e Vincenzo Tuzi, tre dei sedici autori del volume Eurasia e Jihadismo. Guerre ibride sulla Nuova via della Seta (Carocci editore).
«L’impressionante numero di circa 35mila combattenti stranieri – arabi, turchi, africani, americani, europei, caucasici, asiatici ed australiani – giunti in Siria ed Iraq tra il 2014 ed il 2015 ci fa comprendere più di ogni altra valutazione l’ampiezza del fenomeno».
Il terrorismo in nome dell’Islam radicale si sta espandendo in tutto il sud-est asiatico…
Più che una espansione del terrorismo in Asia Pacifica, preferirei dire che oggi assistiamo per certi versi a un mutamento e per certi altri ad una semplice continuazione di una prassi che, purtroppo, esiste nella regione da diverse anni. In breve, si può dire che se l’estremismo di matrice islamica è presente da decenni – pensiamo a gruppi storici quali il Moro National Liberation Front (MNLF) o il Moro Islamic Liberation Front (MILF) nelle Filippine, giusto per fare due esempi discretamente famosi – quello che oggi preoccupa è vedere come e quanto lo Stato Islamico riesca a fare presa in alcuni settori della popolazione di questi stati. Questo spiega quindi come nel 2016 vi siano stati attentati anche sanguinari – forse il più noto è stato quello di Jakarta, Indonesia, nel gennaio 2016 – che però sono stati rivendicati dall’ISIS, cosa che negli anni scorsi non si era verificata. Come in molti altri casi, occorre essere cauti nel credere alle rivendicazioni: quello che però è sotto gli occhi di tutti è il piccolo ma rilevante numero di malesi, filippini e indonesiani che sono a combattere in Siria e Iraq nelle file del califfato, e che poi tornati a casa propria possono essere un ottimo fattore di destabilizzazione. Quindi, in conclusione, il nuovo richiamo dello Stato Islamico si somma alla presenza di alcuni gruppi terroristi già operanti in Asia Pacifica, e che intendono sfruttare questo nuovo brand per aumentare il loro prestigio, la forza delle loro rivendicazioni ed il loro appeal nei confronti della popolazione di cui pretendono di essere la voce. Tutto ciò è molto pericoloso perchè potrebbe innescare una nuova ondata di attacchi nella regione.
Il volume parla anche di Cina e, soprattutto, degli Uiguri, un’etnia turcofona di religione musulmana che vive nel nord-ovest del Paese. Da indipendentisti a terroristi seguaci dell’ISIS?
Sebbene non vi siano conferme ufficiali da parte del governo cinese, le stime più attendibili parlano di circa 300 foreign fighters giunti in Siria ed Iraq provenienti dalla regione dello Xinjiang. Non possiamo stabilire con esattezza quanti di loro siano confluiti nell’ISIS o in altri gruppi armati. Il dato che preoccupa le autorità di Pechino è che una piccola minoranza di cittadini Uiguri ha dato ascolto alla chiamata degli estremisti islamici attraverso la rete internazionale del terrorismo e tramite internet. La stessa Cina è stata oggetto di attentati multipli a Pechino e a Kunming riconducibili a gruppi addestratisi all’estero.
Nel primo capitolo del libro parlate di una differenza sostanziale tra al Qaeda e lo Stato Islamico…
L’ISIS è da considerarsi il primo movimento estremista in grado di combinare azioni violente, progetti ambiziosi e capacità di controllo del territorio, un aspetto riguardo al quale al Qaeda aveva mostrato scarso interesse. Inoltre, diversamente da al Qaeda che si finanziava con il riciclaggio di denaro e con i fondi di beneficienza provenienti dall’estero, lo Stato Islamico è stato capace sin dal 2012 di sviluppare la sua autosufficienza finanziaria tramite i proventi del contrabbando di petrolio, la vendita dei reperti archeologici sul mercato nero, le estorsioni, i dazi sulle merci in transito, il contrabbando di beni di consumo, il traffico di esseri umani, di droga e le donazioni private provenienti dalle Monarchie del Golfo.
L’ultimo capitolo è proprio incentrato sul finanziamento dei gruppi armati…
Le principali fonti di finanziamento del terrorismo risiedono essenzialmente nel traffico di sostanze stupefacenti e nel riciclaggio conseguente, nel contrabbando di tabacchi, di petrolio e di esseri umani, nella contraffazione e nel traffico di reperti archeologici. È pertanto chiaro che in questi settori debbano essere rivolti i maggiori sforzi investigativi al fine di individuare le ricchezze illecite e colpire così le organizzazioni terroristiche sotto il profilo economico-patrimoniale. Il contrabbando di petrolio, in particolare, risulta essere una delle forme di finanziamento in cui il terrorismo si dimostra maggiormente attivo, grazie all’occupazione da parte dell’ISIS di alcuni territori in cui viene estratto. Da qui la rete di connivenze locali ed internazionali che consentono alle organizzazioni terroristiche di provvedere alle proprie esigenze finanziarie sottostanti i molteplici traffici illeciti che direttamente o indirettamente controllano. Non si esclude che per talune tipologie di traffico, pensiamo al traffico di sostanze stupefacenti, al contrabbando di tabacchi e alla contraffazione, il terrorismo possa aver trovato forme di cooperazione con la criminalità organizzata locale e transnazionale.
Quando parliamo di terrorismo islamico pensiamo quasi esclusivamente al Medio Oriente. Ma in realtà «nessun continente è escluso ed è per questo che dobbiamo definirlo una minaccia globale». Per capire come l’estremismo si muove, come si finanzia e dove sta crescendo, Eastonline ha intervistato Matteo Bressan, Stefano Felician Beccari e Vincenzo Tuzi, tre dei sedici autori del volume Eurasia e Jihadismo. Guerre ibride sulla Nuova via della Seta (Carocci editore).