La vittoria del fronte Brexit e di Donald Trump, unita all’aumento delle ansie legate alle attività di propaganda sul web condotte da attori antagonisti alle liberal-democrazie occidentali ha portato al dilagare del concetto post-truth, definito come «relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief».
Che si condivida o meno la definizione della Oxford Dictionaries, l’incremento del 2000% dell’utilizzo del termine nel 2016 rispetto agli anni precedenti è indubbiamente sintomatico della condizione nella quale è immerso l’Occidente. L’utilizzo di notizie false con fini di lotta politica, infatti, ha visto un boom durante le campagne per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e per l’elezione del Presidente americano. Ciò che più ha preoccupato analisti e policy-maker, però, è stata la connessione del suddetto fenomeno con attori statuali o quasi-statuali interessati all’ottenimento di un risultato favorevole ai loro interessi. Le istituzioni europee, ad esempio, si sono recentemente attivate per condannare e provare a contrastare le azioni di disinformazione e destabilizzazione provenienti da Daesh e dalla Russia. Inoltre, sono sorte e continuano a sorgere numerose iniziative che si pongono l’obiettivo di combattere la diffusione di notizie totalmente o parzialmente false e della propaganda ostile. Ciò nonostante, il fenomeno rimane molto esteso e preoccupante. Le ragioni principali per la pervasività dello stesso possono essere ricondotte a una diade: (1) la natura di internet, veicolo ideale per fake news e simili – data la sua peculiare struttura orizzontale; (2) l’utilizzo di euristiche cognitive da parte dell’uomo. È su queste ultime che si vuole ora porre l’accento.
Le euristiche, generalmente parlando, sono «strategie, tecniche e procedimenti utili a ricercare un argomento, un concetto o una teoria adeguati a risolvere un problema […] e permettono di evitare tutte le fasi del processo decisionale, giungendo più velocemente a una soluzione» e, solitamente, si rivelano molto utili per prendere decisioni e fare valutazioni. Molto spesso, però, le suddette si trasformano in trappole cognitive in cui è facile cadere. Ciò si mostra in tutta la sua chiarezza quando si trascorre qualche ora su internet e, soprattutto, sui social network. Qui, infatti, le euristiche cognitive hanno un impatto considerevole. Le stesse aiutano gli individui a selezionare le informazioni ritenute rilevanti dall’enorme flusso presente nel sistema: senza tali “scorciatoie” sarebbe estremamente difficile per un essere umano interfacciarsi efficacemente con il web. Tuttavia, se da una parte ciò permette agli individui di ridurre lo sforzo cognitivo, dall’altra sovente distorce la realtà e spinge gli stessi a fare valutazioni errate o grossolane – ad esempio sulla credibilità o meno di una notizia letta e del sito che la diffonde. Gli utenti, infatti, attraverso i processi sopra citati, sono portati a selezionare le informazioni a seconda delle loro convinzioni ideologico-valoriali di fondo, della loro preparazione scientifica, della loro capacità o incapacità di compiere una cernita qualitativa volta a escludere informazioni provenienti da fonti poco affidabili e così via. Tutto ciò viene fatto in assenza di un filtro composto da soggetti qualificati capaci di svolgere per il cittadino – talvolta privo delle competenze per selezionare adeguatamente le informazioni in entrata – quel ruolo che prima dell’avvento di internet era affidato a esperti del settore provenienti dal mondo scientifico, giornalistico o politico. A complicare il tutto è stato dimostrato (S. Smith, A. Hadfield, T. Dunne, Foreign Policy, Oxford, pp. 130-146) non solo che l’essere umano non ragiona intuitivamente in modo probabilistico ma anche che non risponde pedissequamente al modello del decisore razionale. Esposti a un enorme flusso in entrata e soggetti a processi mentali poco controllabili, numerosi utenti diventano vittime delle cosiddette fake news o di notizie parzialmente false o propagandistiche, spesso – ma non solo – sfruttate da agenti esterni per orientare l’opinione pubblica dei Paesi Occidentali. Infatti, come mostrano numerosi studi, «in information rich environments, [individuals] often do not have the cognitive capacity or time to evaluate information systematically, and instead invoke a diversity of heuristics to evaluate credibility» (M.J. Metzger, A.J. Flanagin, Credibility and trust of information in online environments: The use of cognitive heuristics, Journal of Pragmatics, p. 214).
Qualche esempio è fondamentale per chiarire quanto appena esposto (un compendio interessante sul funzionamento della mente umana si può trovare al seguente link). Uno dei fenomeni distorsivi più diffusi è il confirmation bias, la tendenza che le persone hanno di accettare le informazioni a sostegno delle loro convinzioni scartando le altre. Su internet tale bias viene amplificato dalla possibilità di ricevere informazioni unicamente – o in modo preponderante – da siti o pagine social selezionate o dall’utente o attraverso gli algoritmi che regolano l’apparire dei contenuti sul web. In questo modo il soggetto viene bombardato da un’informazione unidirezionale e, sovente, qualitativamente scarsa, con contenuti parziali, incapaci di spiegare la realtà con un sufficiente grado di profondità o, peggio ancora, interpretata attraverso una serie di assunti errati. Qualora un soggetto inizi a convincersi che, ad esempio, l’unico modo per “non essere ingannato dal sistema” è quello di seguire le pagine di dubbia qualità che veicolano un certo messaggio anti-establishment, il rischio che entri in un circolo vizioso con poche vie d’uscita è molto alto. È stato dimostrato, infatti, che l’essere umano ritiene più credibili le prime informazioni che riceve, soprattutto quando sono diffuse da fonti differenti tra loro. Il proliferare di contenuti web scadenti consente tutto ciò: non solo riescono a apparire prima in rete rispetto, magari, ad analisi più approfondite ma che richiedono maggior tempo per essere elaborate, ma vanno a rinforzarsi a vicenda grazie a continui richiami autoreferenziali fatti da pagine, siti o account non interessati alla veridicità dell’informazione ma, piuttosto, al fatto che sia o meno in linea con il messaggio che si vuole diffondere. Si attivano, poi, i meccanismi classici della logica amico-nemico. L’individuo trova nella lotta ai “poteri forti”, ai massoni, alla finanza internazionale e via dicendo una ragione per vivere; l’appartenenza a un gruppo di suoi “simili” rafforza la sua azione, radicando ed estremizzando le sue posizioni. Inoltre, come poco sopra ricordato, il fatto che spesso gli internauti non hanno gli strumenti adeguati per distinguere una fonte più affidabile da una poco affidabile – o inaffidabile del tutto – li porta in cortocircuiti logici in cui è perfettamente naturale criticare i media mainstream perché ritenuti portatori di menzogne o alle dipendenze dell’élite al potere e, allo stesso tempo, fare affidamento a pagine gestite da persone senza alcuna qualifica e competenza che diffondono contenuti di dubbia qualità – spesso guadagnando grazie a essi ingenti somme di denaro. Il fatto, infine, che gli individui tendano a dare maggiore credito a fonti che conoscono rispetto a quelle sconosciute rende ancora più complesso rompere il circolo vizioso sopra esposto. Il soggetto abituato a informarsi attraverso contenuti scadenti, infatti, non solo non cambierà posizione anche di fronte a una fonte riconosciuta come rigorosa e scientifica ma, molto probabilmente, tenterà di screditare ciò che gli viene presentato secondo i classici cliché sopra presentati.
Quando a una simile struttura di base va a innestarsi la propaganda e le notizie false veicolate dall’esterno il mix diventa estremamente pericoloso. La propaganda russa, ad esempio, sta sfruttando un vasto e variegato insieme di strategie atte a mutare l’orientamento dell’opinione pubblica nelle liberal-democrazie: da vari canali, più o meno ufficiali – tra cui alcuni finanziati dallo Stato –, vengono spesso diffuse notizie distorte o, addirittura, parzialmente/completamente false che molti utenti ricevono e ricondividono. Ad esse, poi, si sommano quelle sparse da soggetti nostrani – perfino profili istituzionali – che vanno ad alimentare il flusso . In questo modo le notizie si diffondono e diventa estremamente complicato rompere, come visto sopra, il circolo vizioso della disinformazione. Caso eclatante e recente è quello della guerra in Ucraina. Le informazioni errate che circolano in rete hanno raggiunto, oramai, una quantità e un peso notevoli. Il sito StopFake, attivo dal 2014 con il fine di individuare e sbugiardare le notizie false sul conflitto in ucraina, dopo poco circa un anno di attività aveva già scovato più di 400 notizie parzialmente o completamente false immesse sul web. La propagazione di certe informazioni ha portato un buon numero di persone a considerare la rivolta di Piazza Maidan come un complotto ordito negli Stati Uniti, il Governo ucraino come espressione dell’ideologia nazista, l’annessione della Crimea come azione legittima, le sanzioni imposte per la stessa, conseguentemente, sbagliate e via dicendo. Ciò, naturalmente, rende complesso anche per i decision-maker portare avanti una politica di contrasto alle azioni russe, vista la necessità in democrazia di rendere conto agli elettori. Inoltre, in Paesi – Italia tra i primi – soggetti a forte instabilità politica il decisore è ancora più esposto agli umori dell’opinione pubblica: in un momento di difficoltà economica, ad esempio, l’argomentazione delle sanzioni, seppur spesso abusata, può essere un’ottima leva per spingere una parte della cittadinanza ad abbracciare tesi simpatetiche a Mosca – ma non necessariamente in linea con gli interessi del proprio Paese.
Al fine di contenere le derive della post-verità anche le principali aziende del settore informatico si stanno muovendo: Google e Facebook, ad esempio, hanno iniziato a varare alcune misure in tal senso ma risulta assai complesso limitare il fenomeno data la struttura orizzontale di internet e l’impatto delle euristiche cognitive sull’agire umano. A rincarare la dose ha pensato il fondatore di Twitter, Evan Williams, che ha recentemente manifestato il suo disappunto per la direzione presa dai social network: «Un tempo pensavo che, se avessimo dato a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e scambiarsi idee e informazioni, il mondo sarebbe diventato automaticamente un posto migliore. Mi sbagliavo». Oltre a ciò, il problema dato da fake news e propaganda ostile è caratterizzato da un ulteriore livello di complessità in quanto limitare il flusso di informazioni rischia di andare a cozzare con il principio della libertà di espressione, cruciale per ogni polity liberal-democratica. Spetta al legislatore, dunque, individuare il giusto equilibrio tra sacra libertà personale e tutela di una cittadinanza che, esposta a flussi di propaganda o notizie parzialmente/totalmente false, diventa vittima di un vero e proprio raggiro. Una cosa è chiara: oramai le battaglie politico-ideologiche così come quelle tra Stati si combattono anche sui social network e, oggi come ieri, appaiono senza esclusione di colpi.
@SimoZuccarelli
La vittoria del fronte Brexit e di Donald Trump, unita all’aumento delle ansie legate alle attività di propaganda sul web condotte da attori antagonisti alle liberal-democrazie occidentali ha portato al dilagare del concetto post-truth, definito come «relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief».