Negli ultimi settant’anni l’Europa si è trovata immersa in uno scenario caratterizzato da relativa stabilità, integrazione progressiva e pace, una combinazione anomala per un continente che ha convissuto con la guerra fin dai suoi albori, ha forgiato il suo Jus Publicum in risposta alla furia della guerra e tramite la guerra ha prima esportato il suo impianto politico-valoriale in tutto il mondo e in seguito abdicato alla sua posizione di dominio, trasformandosi in una delle numerose partite nella più ampia disputa globale tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Proprio sulla base del terrore suscitato dal possibile ritorno della guerra, poi, ha intrapreso il processo di integrazione politico-economica più ampio e complesso mai osservato, arrivando a presentare se stessa e la sua azione nel sistema internazionale tramite il concetto innovativo di “potenza normativa”, avendo come obiettivo primario quello di emergere come attore cardine nel mondo poststorico verso il quale si aveva la convinzione di stare transitando. Dalla crisi del 2008 in avanti, però, lo scenario geostrategico è andato progressivamente deteriorandosi: l’Unione Europea si è riscoperta fragile, sempre più in difficoltà nel gestire i suoi riottosi membri e inadatta ad affrontare un ambiente strategico caratterizzato dall’emergere della condizione di crisi come norma invece che come eccezione.
Dal crollo del muro al parziale successo del Trattato di Lisbona
La fine della Guerra Fredda ha stimolato – teoreticamente parlando e inerentemente a quanto qui trattato – un ampio dibattito sul futuro delle relazioni internazionali. Numerosi studiosi hanno iniziato a manifestare la convinzione che la fine della Guerra Fredda avrebbe condotto a tre risvolti positivi: la fine del conflitto tra “Occidente” e Russia, la fine del conflitto a livello globale e la fine della storia stessa (S. Huntington, No Exit. The Errors of Endism). In particolare, la convinzione dominante è divenuta quella per cui non ci fosse più alternativa al sistema liberal-democratico e che quest’ultimo, dopo aver prevalso nei confronti della superpotenza sovietica, avrebbe prevalso anche nel mondo. Il XXI secolo sarebbe stato il secolo del trionfo della liberal-democrazia e gli anni novanta hanno visto numerosi interventi militari condotti non per le classiche ragioni di potenza o dietro minaccia diretta ai propri interessi nazionali in senso stretto ma per preservare ed espandere l’ordine internazionale liberale in costruzione. Immerse in un siffatto clima le élite europee – reduci da decenni di integrazione, successi e assenza di guerra – hanno iniziato a considerare il modello poststorico rappresentato dall’Unione Europea come il paradigma del futuro. A Bruxelles la politica di potenza classica è parsa uno strumento superato, preferendo a essa – considerato, però, che l’UE, non avendo ricevuto sufficiente devoluzione di competenze nel campo della politica estera e di sicurezza da parte dei Paesi membri, non poteva e non può agire diversamente – il concetto innovativo di “potenza normativa”, ponendosi come un attore capace di agire tramite nuovi schemi sfruttando la forza del suo modello economico-valoriale e il successo della sua integrazione istituzionale. Seguendo questo modello, l’Unione Europea ha intrapreso un percorso di costante allargamento e approfondimento al quale è stata affiancata una politica di vicinato volta a integrare politicamente ed economicamente i Paesi vicini non facenti parte dell’Unione stessa. Nonostante l’attentato dell’11 settembre 2001 e le successive guerre in Afghanistan e Iraq, l’European Security Strategy 2003 manifesta in modo cristallino la percezione in quel momento dominante: «Europe has never been so prosperous, so secure nor so free. The violence of the first half of the 20th Century has given way to a period of peace and stability unprecedented in European history».
L’apice di questo percorso è costituito dal primo grande fallimento del progetto comunitario: l’ambizione di dare una Costituzione all’UE (2004), infatti – essendo il testo stato bocciato tramite referendum dai cittadini di Francia e Paesi Bassi –, svanisce. L’UE ha potuto comunque procedere nel percorso di integrazione attraverso il Trattato di Lisbona (2007) – non soggetto all’utilizzo dello strumento referendario (salvo nel caso irlandese) – che ha consentito la modifica della sua struttura come sostanzialmente previsto nel progetto di Costituzione europea. Il Trattato di Lisbona, però, nonostante la soddisfazione comune espressa al momento della sua ratifica (2009), ha rappresentato il punto di arrivo delle spinte degli anni precedenti, spinte che hanno esaurito la loro forza di inerzia e hanno ceduto sempre più il passo a un processo di rinazionalizzazione della politica nel Vecchio Continente, fenomeno emerso proprio nel momento di maggior successo per il progetto europeo. Da lì in avanti, infatti, il trend positivo per l’Unione ha cominciato a invertirsi.
La crisi finanziaria, il ritorno della guerra e le difficoltà politico-istituzionali
Il processo di rinazionalizzazione in Europa avrebbe potuto seguire un corso diverso se la crisi finanziaria scoppiata nel 2007 non avesse avuto esiti così devastanti per le economie dei Paesi europei. Essa, infatti, ha operato come un catalizzatore di istanze mai sopite – il senso di appartenenza nazionale sopra tutto –, rendendo difficile alle istituzioni europee confrontarsi con i governi nazionali che, trovandosi sempre più alla mercé dei partiti cosiddetti populisti, hanno iniziato ad assumere una postura sempre più rigida nei confronti di Bruxelles.
Presto l’UE si è trovata a fronteggiare una nuova crisi che ha segnato lo spartiacque nei rapporti con la Federazione Russa. Nell’agosto del 2008, infatti, la Georgia – Paese addentro a numerosi progetti UE – nel tentativo di recuperare la sovranità sulle provincie ribelli di Abkhazia e Ossezia del Sud, si è ritrovata in un conflitto impari con Mosca che, dopo essere intervenuta a sostegno dei territori attaccati e aver bloccato e respinto l’avanzata di Tiblisi, ha costretto i georgiani a desistere dai loro propositi. Il dato essenziale è rappresentato dall’emergere in Europa della consapevolezza che non necessariamente gli altri attori si sarebbero fatti irretire dal concetto di “potenza normativa”: tra essi la Russia, allora in fase ascendente grazie all’aumento sensibile del prezzo delle materie prime, ha iniziato a mandare proprio con la guerra in Georgia segnali premonitori inequivocabili a tale riguardo. Se nel 2008 le relazioni tra Mosca e Bruxelles non hanno subito un colpo irreparabile, è pur vero che è divenuto palese come il sogno della “fine della Storia” fosse giunto – rapidamente, tra l’altro – alla sua di fine.
I dissidi tra i Paesi membri non hanno fatto che acuirsi negli anni successivi: insieme alla crescita dei partiti estremisti e/o euroscettici in molti Stati europei, infatti, è emersa una profonda spaccatura in merito alla gestione delle “primavere arabe”. L’incapacità dell’Unione Europea di rispondere compatta alla sfida posta innanzi e di tenere una postura univoca in merito alla gestione della crisi in Libia – con Regno Unito e Francia su una linea fortemente interventista, Germania in posizione di neutralità e Italia in forzata collaborazione – ha contribuito a indicare chiaramente tutti i limiti del progetto europeo. Con il deteriorarsi della situazione mediorientale e il conseguente incremento del numero di migranti diretti in Europa, poi, si sono aperte nuove fratture sostanzialmente impossibili da sanare, in una contrapposizione che ha visto – e vede – agli antipodi i Paesi affacciati sul Mar Mediterraneo e la mezzaluna di Stati che corre da Londra a Budapest.
Ritorno alla storia
È lo scoppio del conflitto in Ucraina, però, a riportare bruscamente l’Unione Europea all’interno della storia. Come visto, infatti, per anni Bruxelles ha pensato di potere giocare una partita differente: improvvisamente, tuttavia, la guerra è tornata a calcare il suolo europeo e la volontà russa di sfruttare i più classici strumenti della politica di potenza per tutelare i suoi interessi strategici è apparsa evidente. Nonostante l’UE abbia reagito esternamente compatta di fronte alla minaccia proveniente da est, internamente le fratture carsiche hanno continuato a espandersi, evidenziando sempre più la differente percezione della minaccia, dei propri interessi e vincoli/opportunità tra i Paesi europei. In particolare, mentre i membri situati nell’Europa centro-orientale hanno espresso con veemenza la necessità di una postura complessiva più dura nei confronti di Mosca – vista come principale minaccia alla loro sopravvivenza – i Paesi meridionali – con l’Italia in testa – hanno portato avanti istanze più aperte a posizioni di dialogo e compromesso, ritenendo più rilevanti le minacce provenienti dal fianco sud e propendendo per un approccio più conciliatorio verso Mosca.
L’ascesa dello Stato Islamico, l’aumento esponenziale del numero di immigrati diretti in Europa e la crisi del debito greco non hanno fatto altro che polarizzare ulteriormente i ventotto. Nel clima di sfiducia verso il progetto europeo, il 23 giugno 2016 un referendum consultivo nel Regno Unito porta alla vittoria il fronte del Brexit: per la prima volta nella storia, dunque, l’Unione Europea potrebbe perdere uno dei suoi membri e, tra l’altro, uno Stato importante per il suo peso politico, economico, diplomatico e militare. Inoltre, la possibilità che l’uscita di Londra possa portare a una maggiore coesione tra i restanti membri – data la sua posizione storicamente ostile all’irrobustimento delle istituzioni UE – sembra remota: «[c]he il Regno Unito ci sia o non ci sia i problemi di coesione all’interno dell’Unione Europea dipendono dal fatto in parte che sono cresciute le differenze di percezione di interessi tra i Paesi, e in parte ancora maggiore che è molto cresciuta la sensibilità ai guadagni relativi nel processo di integrazione europea».
L’Unione Europea, infine, dovrà affrontare il suo momento più difficile dalla fine della Guerra Fredda avendo come interlocutore a Washington Donald Trump. Il neoeletto presidente, infatti, ha non solo espresso più volte la convinzione della necessità di un maggiore impegno europeo sul versante della difesa – in un momento di difficoltà economica per l’Europa e arrivando addirittura a minare l’automaticità dell’articolo V NATO in caso di non ottemperanza – ma ha anche messo in allarme Bruxelles per via delle sue temute aperture nei confronti di Vladimir Putin. L’Unione Europea ha comunicato la sua intenzione di non modificare la sua politica nei confronti della Russia anche nel caso di smarcamento a Washington: è chiaro, però, che senza il sostegno dell’alleato americano difficilmente l’UE potrà mantenere una linea efficace nei confronti della Russia.
La problematicità della situazione europea può condurre a due esiti opposti: da una parte il percorso di frammentazione interna potrebbe continuare fino al recupero, da parte dei Paesi membri, di alcune – o tutte – competenze devolute negli ultimi anni; dall’altra la reazione europea potrebbe spingere verso una nuova fase di integrazione. Quest’ultimo esito, del resto, appare come l’unico adeguato a permettere alla famiglia europea di potere pensare di affrontare con successo le sfide del XXI secolo. Come evidenziato da C. Kupchan, infatti: «Europe’s individual states are not sizable enough to make their presence felt on the global stage […] Only if EU members aggregate their wealth and military capability will they able to help anchor the coming transition in global power» (No One’s World, p. 158). L’ultima European Security Strategy e la decisione di creare un fondo europeo per la difesa sembrano andare nella seconda direzione sopra presentata. È necessaria molta cautela, però, in quanto difficilmente i Paesi europei vorranno privarsi delle loro prerogative nel campo della sicurezza e della difesa: senza tale devoluzione l’Unione Europea non potrà pensare di attuare una politica estera coerente ed efficace. Senza dubbio, comunque, un tale riorientamento verso una postura più muscolare spingerà l’Unione Europea ad accantonare sempre più il concetto di “potenza normativa” – mostratosi inadeguato in un reticolato geostrategico animato dal ritorno dello scontro tra potenze e in un ordine internazionale vacillante e sempre più insicuro – in favore di una più classica concezione di potenza. Se poco più di dieci anni fa Robert Kagan poteva scrivere che «[l]’Europa sta[va] voltando le spalle al potere [ed] entrando in un paradiso poststorico di pace e benessere» (Paradiso e Potere, p. 3), sostenendo, per tale ragione, che fosse possibile affermare che americani ed europei provenissero da due pianeti distinti – i primi da Marte e i secondi da Venere – ora le cose sono completamente mutate. È indubbio, infatti, che i Paesi europei, usciti dal sogno poststorico, dovranno perseguire una politica più marziana: il modo nel quale decideranno di farlo segnerà sia il futuro dell’Unione Europea che quello del Vecchio Continente nel suo complesso.