Gli Usa sanzionano la Cina per l’acquisto di armi “made in Russia”. Ma anche l’India conferma la fornitura di sistemi S-400 da Mosca, che dopo i fasti sovietici rimane il secondo esportatore al mondo di tecnologia bellica. Con partnership commerciali ad alto valore geopolitico aggiunto
«Gli Stati Uniti hanno appena adottato alcune restrizioni commerciali molto importanti e ci hanno puntato il coltello alla gola. Come potrebbero esserci negoziati?» ha tuonato Wang Shouwen, vice ministro cinese del Commercio, dopo che il 24 settembre gli Stati Uniti hanno imposto nuovi dazi alla Cina per la consistente cifra di 200 miliardi di dollari. L’alta tensione fra Pechino e Washington si consuma però anche su altri fronti. Lo scorso 20 settembre il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha annunciato sanzioni contro un dipartimento della Difesa cinese e il suo direttore, Li Shangfu, per l’acquisto di caccia Sukhoi su-35 e del sistema d’arma antiaereo S-400 dalla Russia.
Al di là della guerra dei dazi, tra gli elementi di maggiore preoccupazione per la politica statunitense nel teatro asiatico è il rafforzamento delle relazioni fra cinesi e russi, un processo lento ma progressivo che un mese fa ha raggiunto un importante traguardo con la partecipazione delle truppe cinesi all’esercitazione Vostok, dove Suchoputnye vojska Rossijskoj Federacii e l’Armata Popolare hanno di fatto testato la loro inter-operabilità.
Un concetto non nuovo, considerando che già nel 2010 Pechino annunciava l’acquisizione di batterie S-300, testata terra-aria in produzione dalla metà degli Anni ’70, aggiornata in diverse versioni – compresa appunto una imbarcata e un’altra potenziata S-400 -, velocemente spiegabile e capace di intercettare e distruggere i missili balistici. Un prodotto made in Russia largamente esportato non solo in Cina, visto che anche la Siria riceverà approvvigionamenti di S-300 come dichiara in una nota il video ministro degli Esteri di Damasco Faisal al-Meqdad. E di l’India pochi giorni fa ha confermato l’acquisto di cinque batterie malgrado la minaccia di sanzioni Usa.
Ma può una sola arma essere spina nel fianco per l’intera sicurezza americana? In verità le preoccupazioni della difesa statunitense non si concentrano unicamente su S-300 ma, a più ampio respiro, su un articolato sistema di export che garantisce a Mosca un importante indotto economico e l’opportunità di stringere partnership commerciali con molti Paesi del mondo.
Già nel 1994 il professore della Georgia University Igor Khripunov, intervenendo sulla guerra in Bosnia, ha stimato in 20 miliardi di dollari il fatturato dell’Unione Sovietica nel mercato delle armi fino al 1990. La fine dello stato comunista ha ridotto gli incassi a 2 miliardi, mantenendo una qualità degli armamenti piuttosto bassa: Ak-47 e lancia razzi Rpg, blindo Btr70 e altri equipaggiamenti destinati a Paesi africani e asiatici che puntano più sulla potenza di fuoco che non sui moderni ritrovati tecnologici. Scarsa qualità ma buone relazioni: in seguito ai fatti di Piazza Tienanmen e al conseguente embargo imposto dalla comunità internazionale la difesa cinese ha trovato nella Russia un importante canale di approvvigionamento che ha contribuito a rafforzare le relazioni fra i due Paesi.
Dopo la prima e la seconda guerra cecena, combattute dai russi con un equipaggiamento antiquato, l’era Putin ha visto un programma di ammodernamento delle Forze Armate. Forte di un fatturato annuo di circa 6 miliardi di dollari (2016), la partecipata Oak (Obʺedinennaâ aviastroítelʹnaâ korporáciâ-United Aircraft Corp) è l’azienda leader – nonché unica – nel settore della difesa, perno del processo di rinnovamento delle Vooružënnye Sily Rossijskoj Federacii.
L’attività della Oak abbraccia anche il mercato del volo civile, proponendo aeromobili in grado di confrontarsi con gli omologhi della Airbus e della Boeing. Ma è sul piano militare che l’azienda di stato mostra di più il suo potenziale. Dall’entrata in scena del MiG 35, Oak ha puntato sullo sviluppo della tecnologia stealth, con il Sukhoi Su-57, e di bombardieri supersonici, come il Tu-22 M3M e lo strategico PAK TA previsto per il 2024. La Voenno-morskoj flot può contare sulle moderne fregate classe Grigorovich e Gorshkov e quanto alla ormai vetusta portaerei Kutnzevoz se ne presume la sostituzione entro il 2020.
“Dal 2008, Marina ed Aeronautica russe hanno investito risorse finanziarie senza precedenti per il rafforzamento del potere aereo che include un upgrade e la realizzazione di circa 700 caccia e bombardieri entro il 2020” si legge in Russia Military Power, relazione della Defense Intelligence Agency dedicata alla politica di riarmo del Cremlino.
Un programma ambizioso che, tuttavia, ha dei costi notevoli: 66 miliardi di dollari, secondo Sipri, che possono essere ammortizzati tramite vendite di tecnologie ed equipaggiamenti a Paesi che hanno impostato la loro difesa ricorrendo a strumentazioni made in Russia.
Al di là delle nazioni che facevano parte dell’ex Patto di Varsavia e oggi sono parte della Nato, altri Paesi in Asia e in Africa contano negli arsenali diversi prodotti di fabbricazione sovietica.
È il caso dell’Algeria, che ha stanziato 9 miliardi di dollari per aggiornare le sue forze armate. Un investimento da record, il più alto registrato in Africa, motivato dalla necessità di rendere la repubblica nordafricana più sicura sia rispetto agli attacchi di insorgenti– vedi Al Qaeda nel Maghreb Islamico – che all’instabilità delle aree confinanti.
La maggior parte delle commesse in terra algerina sono a beneficio di Russia, Serbia e Francia, con la quale dopo la guerra di liberazione per decenni l’Algeria ha continuato a mantenere un rapporto stretto.
Gli acquirenti di armi russe sono quindi perlopiù potenze minori che però investono in grande, dalle coste del Mediterraneo meridionale all’Indocina. Il Vietnam, ad esempio, impegna oggi 5 miliardi di dollari per le spese militari che saliranno a 6 miliardi entro il 2020 a beneficio dell’industria militare russa principale partner di Hanoi.
Affari che, si stima, abbiano fruttato a Mosca 14 miliardi di dollari nel 2016. Una cifra importante nel campo delle vendite e delle forniture internazionali che fa della Federazione il secondo più grande esportatore di tecnologia bellica dopo gli Stati Uniti.
Fatturato a parte, mantenere alto lo standard del business ha un valore politico rilevante, poiché permette di stringere rapporti diplomatici con Paesi terzi, questi ultimi poi costretti a rivolgersi sempre al medesimo fornitore per ulteriori approvvigionamenti e per aggiornamenti dei sistemi. Ed è proprio questo il cardine delle preoccupazioni americane, cioè che la partnership commerciale possa essere cavallo di Troia per estendere – o per rafforzare – l’influenza del Cremlino in Medio oriente, nel sud-est asiatico ed in estremo oriente.
D’altra parte, dal punto di vista prettamente militare, la spesa russa per la difesa è quasi nulla a fronte dei 900 miliardi di Usa e Nato insieme. Inoltre è molto difficile che gli S-300 e i loro fratelli maggiori S-400 possano mai essere lanciati dalle rampe mobili e dalle navi, perché ciò provocherebbe una guerra su scala globale. I terra-aria, al pari degli Ak-47 e dei vecchissimi Btr70, sono pedine su uno scacchiere in cui le battaglie si combattono a suon di commesse, una sorta di Risiko-business nel quale piazzare il carrarmatino significa limitare la sfera d’influenza dell’avversario.
@marco_petrelli
Gli Usa sanzionano la Cina per l’acquisto di armi “made in Russia”. Ma anche l’India conferma la fornitura di sistemi S-400 da Mosca, che dopo i fasti sovietici rimane il secondo esportatore al mondo di tecnologia bellica. Con partnership commerciali ad alto valore geopolitico aggiunto