I media sono il collegamento fra la nostra quotidianità e il mondo esterno. In una realtà sempre più interconnessa, avere informazioni su ciò che avviene nei quattro angoli del globo è sempre più facile, come semplice è mostrare la propria indignazione o il proprio accordo: i problemi globali, gli scandali, i complicati tasselli degli equilibri geopolitici diventano tormentoni, che si diffondono con una semplice condivisone.
L’attivista politico è chi sceglie l’hashtag più accattivante. Nel nostro mondo digitale, dunque, basta poco per far diventare una notizia “virale”. Ma se queste notizie non fossero esattamente vere?
Negli ultimi mesi si è parlato molto di fake news, notizie false diffuse rapidamente sui social (e non solo), difficilmente distinguibili da fonti di informazioni più affidabili.
E a ragione, dato che, secondo uno studio condotto dall’Università di Stanford, gli americani per i quali i social media sono la “principale fonte di informazione” sono ben il 14% della popolazione. E i social sono il regno delle fake news.
Un’analisi condotta da BuzzFeed riguardo all’impatto delle fake news sulle elezioni Americane rivela risultati preoccupanti: negli ultimi 3 mesi di campagna elettorale, le cosiddette fake news hanno generato un engagement maggiore (un numero maggiore di “like”, condivisioni e commenti) rispetto a servizi del New York Times, del Washinton Post e della CNN, giusto per menzionarne alcuni. L’endorsement di Trump da parte di Papa Francesco e il cosiddetto “Pizzagate”, che accusava Hillary Clinton di gestire un giro di prostituzione minorile nel retro di una pizzeria di Washington, sono due delle innumerevoli storie circolate sul web, poi rivelatesi false.
Entrambi gli esempi sopracitati sembrerebbero aver agito a favore del candidato Repubblicano, ora Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. E non è un caso: secondo Stanford, infatti, il numero di condivisioni di fake news pro-Trump sarebbe più del triplo rispetto agli “shares” di notizie fasulle in favore della candidata Clinton (30 milioni contro 8).
Mark Zuckerberg, CEO del colosso Facebook, ha inizialmente negato una corresponsabilità del social network della Silicon Valley nella vittoria di Donald Trump. Facebook è una technology company, non una media company, affermava a Novembre, non è suo compito assicurarsi dell’accuratezza delle notizie che circolano sul web.
Ora, però, il miliardario trentaduenne sembra aver cambiato rotta. In seguito a crescenti pressioni tedesche, alla viglia delle elezioni in Germania, Facebook ha lanciato un’iniziativa che dovrebbe limitare la diffusione delle fake news : gli utenti potranno segnalare una notizia come falsa, la quale sarà in seguito spedita a “Correctiv”, un’azienda di revisione indipendente; se quest’ultima confermerà i dubbi riguardo alla veridicità della storia, l’articolo sarà segnalato come “controverso” e chiunque voglia condividerlo riceverà un avvertimento dal sistema. Oltre a queste misure di precauzione, il social network ha anche recentemente lanciato il “The Facebook Journalism Project”, attraverso il quale l’azienda californiana si impegna a collaborare con le sale stampa e supportare iniziative che insegnino agli utenti a distinguere una notizia vera da una fake.
Questi progetti non sembrano tranquillizzare del tutto l’UE: il neo-eletto presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, ha annunciato di voler seguire la linea del suo predecessore Martin Schultz, e di promuovere una “soluzione europea” per garantire l’accesso ai cittadini europei ad informazione di qualità.
A volte, però, le fake news non vengono da siti estremisti di dubbia qualità, e non rimbalzano di bacheca in bacheca sui social network: un esempio su tutti è il caso del “massacro di Bowling Green”, un eccidio (mai avvenuto), citato da Kellyanne Conway, portavoce non ufficiale di Trump in almeno tre interviste nazionali. Nonostante la storia sia stata velocemente smascherata, una recente ricerca dell’agenzia Public Policy Polling ha riportato che ben il 23% degli americani non solo considerano quest’informazione vera, ma anche sufficientemente grave da giustificare il cosiddetto “Muslim Ban”.
E dunque, se le fake news non circolano solo sul web, ma anche sulla bocca di ufficiali di stato, i lettori devono essere in grado di difendersi da soli. Di riflettere, informarsi, condurre ricerche incrociate, invece di farsi prendere dall’indignazione del momento e condividere la notizia con un semplice click. E se quest’attenzione vi sembra eccessiva, pensate che uno “share” su Facebook può diventare virale, notizie fasulle possono essere considerate vere, e (perché no?) contribuire all’elezione di un presidente misogino e xenofobo nella nazione più potente del pianeta.
I media sono il collegamento fra la nostra quotidianità e il mondo esterno. In una realtà sempre più interconnessa, avere informazioni su ciò che avviene nei quattro angoli del globo è sempre più facile, come semplice è mostrare la propria indignazione o il proprio accordo: i problemi globali, gli scandali, i complicati tasselli degli equilibri geopolitici diventano tormentoni, che si diffondono con una semplice condivisone.
L’attivista politico è chi sceglie l’hashtag più accattivante. Nel nostro mondo digitale, dunque, basta poco per far diventare una notizia “virale”. Ma se queste notizie non fossero esattamente vere?