La percezione che gli indiani hanno della realtà che li circonda li spingerà, pare, a cercare di segnare una cesura col passato e votare per “il cambiamento”. Chiaramente tutti i partiti si presentano come “nuovi”, ma andando a ben vedere il rischio che qualcosa cambi – in meglio – mi pare abbastanza remoto.

Per deformazione personale – antifascismo strutturale e diffidenza verso i salvatori della patria – in questo mesetto di residenza a Delhi mi sono trovato a discutere più volte del significato del voto indiano, del fatto che scegliere alle urne questo o quel candidato possa davvero modificare la traiettoria del paese. Il mio limite, enorme, è vedere tutto da esterno, non indiano, senza quella passione e coinvolgimento anche emotivo che si hanno quando si ha a che fare con le cose di casa propria. Sono legato all’India, alterno amore e odio con tutto me stesso, ma non riuscirò mai a vederla con gli occhi di chi qui c’è nato e cresciuto.
Chiacchierando un po’ con conoscenti, amici, accademici e studiosi indiani di diverse idee politiche, tutti concordano nella valutazione negativa dell’amministrazione dell’Indian National Congress. Manmohan Singh è una brava persona ma non ha personalità; le alte sfere dell’Inc sono incancrenite sulle loro posizioni ormai desuete, il mondo è cambiato e l’India ha bisogno di cambiare. Tutti i partiti lo sanno e tutti, ognuno a modo suo, prova a presentare il nuovo che avanza.
Il Congress, affidando la campagna elettorale a Rahul Gandhi – non è il candidato premier, ma “la faccia” del partito in queste elezioni – ha provato maldestramente un maquillage anagrafico, buttando nella mischia il giovane rampollo della dinastia Gandhi puntando sulla sua “faccia nuova”. Ma Rahul è affetto da un deficit enorme di carisma, non buca lo schermo, non si scompone, nella sceneggiata continua della campagna elettorale indiana fatica a far passare contenuti anche nobili – come la difesa del secolarismo e l’aiuto alle classi disagiate, con politiche ad hoc per lo sviluppo “dal basso” – col suo aplomb, portandosi inoltre sulle spalle il peso della tradizione famigliare di partito e una serie di “figli di” pronti a concorrere nelle circoscrizioni “di famiglia”.
Aam Aadmi Party invece riesce ad attirare il voto dei giovani urbani grazie a due fattori: Aap è davvero il nuovo che avanza – è la prima volta che concorre a livello nazionale e quindi ha buon gioco nell’affermare che “tutti sono corrotti, devono andarsene tutti a casa” – e soprattutto, a livello locale, vanta candidature eccellenti.
Qui a Delhi, ad esempio, diversi professori universitari noti per le loro idee progressiste corrono per Aap, nella speranza di cambiare qualcosa dal micro verso il macro. L’entusiasmo collettivo per Aap – sempre per un mio limite – non riesce a coinvolgermi, spaventato dalle similitudini che uniscono l’esperienza del Movimento 5 Stelle in Italia qualche anno fa e quella di Aap ora.
Ricordo quando, da noi, i grillini erano visti come la marea che doveva spazzare via la vecchia politica, la ka$ta; gioventù al potere, idee fresche per il rinnovamento. Sappiamo com’è andata, tra scene tragicomiche e liste di proscrizione ad isolare i dissidenti interni, una tendenza che potrebbe prendere piede facilmente in un partito come Aap dove il peso politico di Kejriwal – unico esponente dal respiro nazionale del partito – è preponderante e gli altri candidati, diciamo, fanno da contorno. Quando mi parlano di Aap io parlo – male – del Movimento 5 Stelle, nella migliore tradizione della Cassandra europea, ma spero di sbagliarmi.
Infine c’è Narendra Modi, esponente di un’India che fa paura davvero: bigotta, arrivista, prevaricatrice, presuntuosa, machista, razzista e classista, violenta ed avida (elementi comuni a tutto il panorama politico nazionale, sia chiaro, ma che in Modi e nel Bjp si concentrano con una maggiore intensità). Modi si è costruito un’immagine di uomo forte, un condottiero capace di guidare il paese verso lo “sviluppo” – leggi: la ricchezza – grazie a un programma economico del quale ancora non si capisce nulla, in concreto.
Parla di “modello Gujarat”, rifacendosi alla crescita registrata nello stato che ha amministrato per due mandati sviluppando infrastrutture, accogliendo fabbriche e multinazionali costrette a spostare la produzione da territori più movimentati – come il Bengala occidentale, ad esempio – chiudendo un occhio sui diritti dei lavoratori e dei contadini avvalendosi di una rete di connivenze tra amministratori locali, imprenditoria e potere religioso.
È un modello che, a parole, promette crescita immediata, e là fuori c’è la fila per entrare in forze nel mercato indiano del lavoro con un governo più compiacente di quello attuale. Un governo che tolga “i lacci e lacciuoli” e faccia di questo paese una prateria del capitalismo rampante. Dubito che, alla lunga, un modello simile possa fare del bene all’India, ma attorno a me vedo tanta gente delusa, persone alle quali era stata promessa una crescita irresistibile improvvisamente bloccata.
E ora, con Modi dato favorito dai sondaggi, il timore è che il fascino del cambiamento pubblicizzato dalla destra hindu possa fare il pieno dei delusi e dei frustrati, incoronando un leader che promette crescita e sviluppo pagati in diritti e libertà.
La percezione che gli indiani hanno della realtà che li circonda li spingerà, pare, a cercare di segnare una cesura col passato e votare per “il cambiamento”. Chiaramente tutti i partiti si presentano come “nuovi”, ma andando a ben vedere il rischio che qualcosa cambi – in meglio – mi pare abbastanza remoto.