Eletto il nove maggio scorso, Rodrigo Duterte – soprannominato dai media il «Trump delle Filippine» o «Il giustiziere» – si è ufficialmente insediato ieri come sedicesimo presidente del Paese. Nella cerimonia ha promesso di cambiare il sistema politico affinché «i cittadini possano tornare ad avere fiducia nei politici e negli amministratori pubblici». Ovviamente, poi, come promesso in tutta la sua campagna elettorale, ha annunciato la lotta alla criminalità e il ripristino della pena di morte.
Rodrigo Duterte, 71 anni, noto per il pugno di ferro contro la delinquenza e per gli slogan populisti da «uomo forte», è stato per più di vent’anni il sindaco di Davao, una città che, prima del suo arrivo, deteneva il record nazionale di omicidi e criminalità. Durante il suo lungo mandato, nell’isola di Mindanao, una delle zone più difficili del Paese, non ha esitato ad usare le maniere forti per affrontare criminali e spacciatori, tanto che molte volte è stato condannato dall’Occidente e da organizzazioni per i diritti umani.
Il nuovo presidente delle Filippine è stato anche accusato di aver organizzato le «squadre della morte», responsabili dell’assassinio di quasi duemila persone, tra cui 130 minori. Duterte, che non sopporta tanto le critiche, si era limitato a rispondere che prima del suo arrivo «Davao era un luogo arretrato e pieno di criminali, mentre oggi è la città più sicura del sud-est asiatico».
Dall’inizio di maggio, quando ha vinto le consultazioni non ha mai smesso di far parlare di sé. Ha attaccato i giornalisti, definendoli dei «figli di p…» che «si meritano di morire se hanno fatto qualcosa di sbagliato». Ma, soprattutto, ha attaccato – per l’ennesima volta – la Chiesa cattolica.
Un anno fa aveva insultato il Papa, colpevole, secondo lui, di aver causato ingorghi stradali durante la sua ultima visita nelle Filippine. Poi il nuovo presidente del Paese aveva fatto dietro front, con delle scuse che sembravano sincere. La sua portavoce, infatti, aveva dichiarato che avrebbe voluto «visitare il Vaticano per chiedere perdono personalmente al Papa» e che «non avrebbe mai più usato un linguaggio inadeguato». Così non è stato. Anzi.
Duterte alla fine di maggio è tornato all’attacco, definendo la Chiesa cattolica «l’istituzione più ipocrita al mondo». E poi, ancora, rivolgendosi direttamente ai vescovi, ha aggiunto: «Voi siete dei figli di p…., non vi vergognate? Avete chiesto così tanti favori ai politici, me compreso».
Il nuovo presidente del Paese, l’unico a maggioranza cattolica in Asia – circa il 94 per cento si dichiara così, anche se molti fanno parte di vere e proprie sette, come il «Regno del Paradiso», quella a cui appartiene Duterte e che sembra abbia sovvenzionato gran parte della sua campagna elettorale -, ha lanciato una vera e propria sfida, affermando di essere pronto ad approvare una legge «sui tre figli». Decreto che, a tutti gli effetti, limiterebbe le nascite delle famiglie filippine.
Prima delle elezioni i vescovi del Paese avevano esortato i fedeli a non scegliere i candidati con un profilo moralmente discutibile. Anche se non era mai stato fatto il nome di Rodrigo Duterte, il riferimento era più che chiaro. «Un buon cristiano o qualsiasi cittadino in buona coscienza non potrebbe mai sostenere un candidato presidenziale che è un assassino di massa e che indica apertamente una politica di esecuzioni extragiudiziali come parte integrante del suo programma», si leggeva in una lettera intitolata «Questione di coscienza», scritta dall’arcivescovo Antonio Ledesma, gesuita di Cagayan de Oro.
Le incognite sono tante. Ma una cosa è certa: la battaglia tra la Chiesa cattolica e Rodrigo Duterte è solo all’inizio. E si aggiunge alle altre – difficili – sfide che il nuovo presidente dovrà affrontare.