Durante la sua campagna elettorale, Rodrigo Duterte – presidente delle Filippine in carica da poco più di un mese – aveva promesso di «combattere la criminalità a tutti costi» e di «eliminare il traffico di droga entro sei mesi». In che modo? «Sparando ed uccidendo».
Secondo quanto riporta il quotidiano asiatico Philippine Star, durante un comizio di una ventina di giorni fa, il «Trump delle Filippine» o «Il giustiziere» – così come è stato soprannominato Duterte -, avrebbe incitato all’assassinio di «questi figli di p… che distruggono i nostri giovani». «Se conoscete qualche tossico – aveva suggerito il presidente alla folla dei suoi sostenitori – non pensateci e ammazzatelo».
Detto, fatto. Nelle ultime settimane centinaia di persone – per lo più presunti consumatori e spacciatori – sono stati uccisi, lasciati in mezzo alla strada con un inquietante cartello appeso al collo che racconta la loro colpa con poche lettere: «pusher». Secondo il Washington Post, fino al quattro agosto scorso, l’escalation di violenza sarebbe costata la vita ad almeno 571 persone. Ma le associazioni umanitarie avvertono che il bilancio reale potrebbe essere ben più grave, forse pure il doppio.
Le immagini che arrivano dai social network, mostrano una situazione senza precedenti. Tossicodipendenti umiliati, picchiati, abbandonati in mezzo alla strada nudi con le mani e i piedi legati. E così, proprio a causa del clima di terrore, circa un migliaio di filippini coinvolti nel commercio illegale di sostanze stupefacenti, per paura di essere freddati dalla polizia, da vigilantes privati col grilletto facile, oppure, dai tanti sceriffi improvvisati, si sono consegnati alle autorità.
Proprio ieri, Human Rights Watch (HRW), è tornata a condannare i metodi di Rodrigo Duterte. Nella lettera inviata al neopresidente, l’organizzazione internazionale ha chiesto di «garantire i diritti umani della popolazione filippina». Anche Phelim Kine, vice direttore per l’Asia di HRW, ha spiegato che «le Filippine si trovano di fronte ad una serie di gravi problemi legati alle uccisioni e alle brutali torture».
A ricomporre una situazione orami degenerata non aiutano i problemi di tossicodipendenza diffusi nelle fasce più povere della popolazione che consumano abitualmente lo shabu. Si tratta di una metanfetamina devastante per l’organismo, usata anche dai criminali per stordirsi prima di delinquere. Pure per questo, l’opinione pubblica, sembra tifare la «cura Duterte». Il nuovo presidente, infatti, secondo l’ultimo sondaggio effettuato da Pulse Asia, è sostenuto dal 90 per cento della popolazione filippina.
Ma non è finita qui, nel mirino del leader del Paese asiatico che ha fatto della lotta alla droga il suo cavallo di battaglia, sono finite anche duecento persone, tra sindaci, giudici, deputati, militari e poliziotti, accusati di avere legami con il traffico di stupefacenti e per questo li ha rimossi immediatamente dagli incarichi.
Durante la sua campagna elettorale, Rodrigo Duterte – presidente delle Filippine in carica da poco più di un mese – aveva promesso di «combattere la criminalità a tutti costi» e di «eliminare il traffico di droga entro sei mesi». In che modo? «Sparando ed uccidendo».