Trump ce la sta mettendo tutta per far naufragare l’accordo che, a suo avviso, non è sufficientemente vantaggioso per i lavoratori americani. Ma Peña Nieto e Trudeau non hanno ancora perso tutte le speranze
Ieri si è concluso ad Arlington, in Virginia, il quarto giro di negoziati del Nafta, il trattato nordamericano di libero scambio che Stati Uniti, Messico e Canada si stanno impegnando a revisionare da agosto per volontà di Donald Trump, che dell’accordo – ormai è noto – ha un’opinione talmente negativa da ritenerlo il peggiore mai stipulato in tutta la storia.
Le previsioni sul futuro del trattato non sono affatto positive. C’era chi già lo dava per spacciato la settimana scorsa a seguito del pesante clima di tensione innescato da una dichiarazione di Trump a Forbes: «Mi capita di pensare che il Nafta dovrà essere cancellato se vogliamo migliorarlo. Altrimenti, non credo si possa negoziare un buon accordo…». Questi hanno trovato nelle parole di Robert Lighthizer una conferma alle loro convinzioni. Nella conferenza stampa al termine dei lavori a porte chiuse, infatti, il rappresentante per il commercio degli Stati Uniti ha detto di essere «deluso dalla resistenza al cambiamento» dei negoziatori messicani e canadesi e ha ricordato che «il presidente [Trump] è stato chiaro: se vogliamo che l’accordo continui deve essere favorevole per i lavoratori americani».
Considerate le proposte, estremamente stringenti, avanzate gli scorsi giorni dagli Stati Uniti, l’opposizione di Canada e Messico era scontata. Washington infatti voleva, e ancora vorrebbe, aumentare la percentuale minima di produzione regionale dei componenti auto dal 62,5% all’85%, fissare al 50% la quota di diretta origine statunitense ed eliminare due meccanismi per la risoluzione delle dispute tra stati membri e tra imprese e governi contenuti nei capitoli 19 e 11. E soprattutto vorrebbe inserire nel Nafta una “clausola-tramonto” (sunset clause) che imporrebbe ai tre paesi di rinegoziare l’accordo ogni cinque anni, pena la sua estinzione automatica: una misura che non garantirebbe la stabilità necessaria agli investimenti a lungo termine e che pertanto è osteggiata da tutti, in particolare dagli imprenditori americani. Thomas Donohue, il capo della Camera di commercio americana, ha per l’appunto recentemente accusato il suo presidente di voler “avvelenare” i negoziati con proposte inaccettabili.
In verità, la strategia di Trump potrebbe essere esattamente questa: presentare norme svantaggiose per le altre due nazioni con la consapevolezza che saranno sicuramente respinte, in modo da avere un pretesto per uscire dall’accordo. Secondo la maggioranza degli analisti la vera intenzione di Trump non sarebbe quella di aggiornare il Nafta (se non alle sue condizioni, ovviamente), ma di farlo piuttosto implodere.
A chi converrebbe un Nordamerica senza Nafta? Non al Messico, che nonostante la sua nuova proiezione globale che lo sta portando a firmare quanti più accordi di libero scambio con quante più nazioni possibili («Il Messico è molto più grande del NAFTA», ha dichiarato di recente il suo ministro degli Esteri) ancora dipende eccessivamente dagli Stati Uniti, in cui invia l’80% delle sue esportazioni. La fine del NAFTA potrebbe poi minare la fiducia degli investitori stranieri in un paese che si avvia verso delle elezioni presidenziali avvertite come potenzialmente destabilizzanti, e aggravare così la svalutazione del peso.
A beneficiarne non sarà nemmeno il Canada, che come il Messico spedisce i tre quarti del suo export negli Stati Uniti. E neanche gli stessi Stati Uniti. Se Trump dovesse davvero trascinarli fuori dal Nafta, il commercio con la regione verrebbe regolato dalle norme della World Trade Organization: le esportazioni americane in Messico, secondo principale mercato di sbocco, verrebbero tassate in media del 7,1%; quelle agricole pagherebbero lo scotto maggiore, con dazi del 15% sul grano (che il Messico acquista in gran quantità), del 25% sul manzo, del 75% sul pollo e sul fondamentale sciroppo di mais.
In assenza del Nafta verrebbe meno quella filiera produttiva sovranazionale che garantisce competitività all’industria automobilistica statunitense (che assembla in Messico approfittando della manodopera più economica e poi ri-esporta in patria senza pagare imposte) ma non si fermerebbe il processo di delocalizzazione, che anzi potrebbe facilmente volgersi verso l’Asia. Anche l’ossessione dell’amministrazione Trump per il deficit commerciale provocato dal Nafta ha poco senso, dato che l’85% dell’intera bilancia commerciale negativa statunitense proviene da Paesi con cui non sono stati stretti accordi di libero scambio.
L’importanza del Nafta trascende l’economia, e qualcuno lo definisce infatti un trattato più geopolitico che commerciale, quasi uno strumento di politica estera con cui gli Stati Uniti “vigilano” sulla realtà messicana. Questo il Messico lo sa, ovviamente: in un discorso al Senato tenutosi una settimana fa, il ministro degli Esteri Luis Videgaray ha di proposito fatto intendere che la fine del Nafta comporterà un arretramento della cooperazione messicano-statunitense in materia di migrazione e di sicurezza.
La strategia bilaterale contro il narcotraffico e la criminalità organizzata, seppur complessa, funziona abbastanza bene: gli Stati Uniti offrono il loro supporto per la cattura dei grandi capi dei cartelli, il Messico collabora facilitando le procedure di estradizione (El Chapo, ad esempio, è detenuto a New York, ma la lista è lunghissima). E anche quella, più cinica e raramente rispettosa dei diritti umani, di contrasto all’immigrazione proveniente dal Centroamerica ha avuto successo nel contenere i flussi. Ma si tratta di strategie che si reggono, oltre che sulla volontà politica, sulla fiducia reciproca: e la rottura di una ventennale alleanza commerciale di certo non aiuterà al loro mantenimento.
Il Messico pare si sia rassegnato all’eventualità della cancellazione del Nafta o della ritirata degli Stati Uniti. Più speranzoso si è mostrato in pubblico il primo ministro canadese Justin Trudeau: «Continuo a credere nel Nafta», ha detto mercoledì 11 dopo l’incontro con Trump alla Casa Bianca, pur riconoscendo che «le circostanze sono spesso difficili». Giovedì, nella sua prima visita ufficiale in Messico, ha assicurato che il Canada non si ritirerà dai negoziati.
Il prossimo giro – il quinto – si terrà a Città del Messico dal 17 al 21 novembre, posticipo che estenderà la durata delle trattative fino ai primi mesi del 2018. Sempre che le cose non precipitino nel frattempo. Nel bene e nel male, ventitré anni di Nafta hanno dato all’economia dell’America settentrionale una struttura che sarà difficile smantellare senza fare danni: almeno due delle tre parti in causa desiderano dei negoziati dall’esito win-win-win, ma sembra che ci si stia piuttosto avvicinando ad un risultato lose-lose-lose.
@marcodellaguzzo
Trump ce la sta mettendo tutta per far naufragare l’accordo che, a suo avviso, non è sufficientemente vantaggioso per i lavoratori americani. Ma Peña Nieto e Trudeau non hanno ancora perso tutte le speranze