La mobilitazione dei neri entra negli stadi. E il quarterback contestatore Colin Kaepernick finisce nel mirino di Trump. L’attacco del presidente scatena la più grande ondata di proteste della storia dello sport Usa. Uno scontro clamoroso che oscura le ragioni della rivolta.
Colin Kaepernick non ha il fisico né l’atteggiamento del tipico giocatore di football americano. Non li immaginiamo con un sorriso dolce, li pensiamo dei bestioni con lo sguardo truce, la risata sguaiata e dalle abitudini simili a quelle di certi rapper: auto voluminose e sgargianti, case sovradimensionate, catene d’oro al collo grandi come quelle con cui leghereste la vostra preziosa moto a un palo della luce. L’ex quarterback dei San Francisco 49ers, invece, tende a vestirsi con una t-shirt sulla quale campeggia un messaggio politico e ha donato quasi un milione a organizzazioni e campagne radicali. E, da solo, ha prodotto la più grande ondata di protesta della storia dello sport a Stelle&Strisce.
Il cuore e il cervello della protesta degli sportivi afroamericani d’America è lui, finito disoccupato nonostante sia un giocatore di alto livello perché il primo settembre 2016, invece di alzarsi in piedi durante l’esecuzione dell’inno pre-partita, si è inginocchiato per protestare: «Non mi alzo in piedi davanti a una bandiera di un Paese che opprime i neri e le persone di colore. Per me, questo è più importante del football e sarebbe egoista da parte mia guardare da un’altra parte. In strada ci sono corpi e le persone che uccidono ottengono ferie pagate e “they get away with murder”» (ovvero non vengono condannati, riferimento alla serie Tv di cui è protagonista Viola Davis).
Kaepernick è quello che una parte importante dell’America bianca non vuole vedere: una figura importante del mondo dello show-business che non rispetta il ruolo che gli viene attribuito. E gli atleti neri, per alcuni, dovrebbero far divertire, sorprendere, fare canestri da tre, schiacciare, battere home run e starsene al loro posto. Non devono pensare, ma correre e guadagnare soldi. Come se l’attore Reagan o il conduttore di reality show Trump non avessero fatto politica e non fossero diventati presidenti e la star del wrestling Jesse Ventura non avesse fatto per quattro anni il governatore del Minnesota – per non parlare di Schwarzenegger.
La protesta è deflagrata nel mondo dello sport Usa dopo che il presidente Trump aveva chiesto durante un comizio in Alabama, dove il pubblico repubblicano non è esattamente amante dei diritti civili, «Non vorreste che un presidente di club della NFL si alzasse e dicesse “togliete dal campo quel figlio di puttana che si inginocchia, è licenziato!”». La frase del presidente e alcune successive sulla qualità mediocre del gioco, i ratings che scendono che non è più come una volta per colpa di regole che cercano di mitigare la violenza e ridurre i traumi per i giocatori, hanno generato una cosa mai vista. Specie nel football, che è il più americano e ricco degli sport. I Dallas Cowboys si sono inginocchiati tutti, compreso il proprietario, i Charlottesville Jaguars si sono abbracciati, alcuni tra i Denver Broncos hanno alzato il pugno, mentre i Baltimore Ravens hanno fatto come i Cowboys. Poi ci sono i Pittsburgh Steelers, rimasti tutti negli spogliatoi tranne uno e come loro i Seattle Seahawks e i Tennessee Titans. L’elenco potrebbe essere molto lungo. Altre squadre, con i loro allenatori o presidenti si sono tenute per mano o hanno formato una catena.
In precedenza Trump aveva polemizzato con la stella dei Golden State Warriors, Steph Curry, che ha scelto di non andare alla Casa Bianca per la consueta visita che la squadra campione della NBA fa al presidente. Tra le altre affermazioni fatte da Trump sulla vicenda c’è l’essersi attribuito il merito per la disoccupazione di Kaepernick e la lettura secondo cui i presidenti delle squadre e la NFL tutta, che ha difeso con un comunicato ufficiale la libertà di espressione, hanno solidarizzato con la protesta perché hanno paura dei loro giocatori. Trump ha anche raccontato sul suo social media preferito che i “boo” del pubblico dei Cowboys sono i più forti che ha mai sentito, suggerito ai tifosi di non andare allo stadio per protesta, spiegato che la bandiera va rispettata e, infine, suggerito alla NFL di introdurre la regola per cui è vietato inginocchiarsi durante l’inno. Il suggerimento ha avuto una conseguenza: sebbene si tratti di una norma potenzialmente anti-costituzionale perché viola il primo emendamento sulla libertà di espressione, alcuni college hanno introdotto questo nuovo divieto, pena l’esclusione di chi lo compie dalle attività sportive.
Alle frasi di Trump ha risposo indirettamente un collega dei 49ers di Kaepernick, Eric Reid, con un editoriale sul New York Times nel quale si ricorda come Trump abbia parlato dei suprematisti bianchi come “gente per bene” e si spiega che proprio l’essere patrioti e amare il proprio Paese è alla base della protesta e che, infine, coloro che sono morti per gli ideali, lo hanno fatto anche per difendere la libertà di espressione.
L’editoriale di Reid è importante perché torna a mettere l’accento sulla necessità di una questione razziale, che è la ragione per cui l’ex quarterback dei 49ers ha scelto di mettere in gioco la sua carriera. Il clamore della protesta seguita alle parole di Trump rischia invece di andare oltre e rendere politica, nel senso di schieramento pro o contro la Casa Bianca, una questione che lo è in una dimensione più complessa. La verità infatti è che alcuni dei padroni di squadre della NFL, a cominciare dal boss dei Jaguars Shadid Khan, il primo che ha partecipato a una protesta, hanno donato soldi alla campagna elettorale del presidente in carica e che molti di loro e dei loro staff, in privato, sostengono che Kaepernick sia un traditore, uno che odia il suo Paese e che nessuno dovrebbe più farlo giocare. Ovvero, la stragrande maggioranza dei boss della NFL sa esattamente quale sia la questione sollevata – quella del permanere di forme di segregazione e razzismo nella società americana – e non è d’accordo che si tratti di un tema di cui discutere. Come ha scritto Mike Freeman, autorevole giornalista sportivo, l’NFL è una federazione che assume persone indagate per omicidio, violenza domestica, omicidio alla guida in stato di ebbrezza senza battere ciglio ma si rifiuta di far lavorare una persona che ha protestato in maniera pacifica.
C’è quindi il rischio che la levata di scudi generalizzata contro le parole fuori luogo del presidente Trump facciano ombra sulle ragioni scatenanti della protesta? Forse: sulla copertina di Sport Illustrated dedicata alla protesta dal titolo “Nazione divisa, sport unito” Kaepernick non c’è. In effetti, la stretegia dei presidenti delle squadre è proprio quella di dire “siamo uniti, noi e le comunità nelle quali lavoriamo e viviamo”. Niente questione razziale, insomma.
Eppure, anche nel mondo dello sport ci sono figure che sanno parlare del tema in maniera straordinariamente chiara. Uno tra questi è Gregg Charles Popovich, “The Pop”, il super-coach dei San Antonio Spurs, la panchina più duratura della storia, 5 titoli nazionali e un’aura mitica. Popovich parla poco e con lo sguardo basso, detesta i microfoni addosso. Ma da quando Trump è presidente si lascia sempre più spesso andare. Parlando alla stampa dopo le dichiarazioni di Trump, Popovich è andato dritto al punto: «La questione razziale è l’elefante nella stanza. E se non ne parliamo costantemente la situazione non migliorerà. C’è chi dirà “oh no, non di nuovo a parlare di razza, perché dobbiamo parlarne ancora?”. Perché è scomodo, e senza discussioni scomode non si cambia…Noi bianchi dobbiamo sentirci a disagio, perché stiamo comodi e non abbiamo la più pallida idea di cosa significhi essere nati bianchi…e questo nonostante l’essere bianchi sia un’invenzione…È difficile accettare di avere avuto un vantaggio per ragioni legate alla pelle con la quale si è nati…le persone vogliono mantenere quel vantaggio dato dallo status quo, ma fino a quando questo non verrà ceduto, le cose non saranno a posto». Il coach degli Spurs ha chiaramente letto Ta Neishi Coates, il cui “Between the world and me” discute a fondo l’invenzione della bianchitudine. Meno nota è la figura che si è dimessa dal suo lavoro, quello di cantare l’inno prima dei match dei Baltimore Ravens, Joey Odoms, perché una parte del pubblico ha fischiato i giocatori in ginocchio mentre lui cantava. Nero, veterano dell’Afghanistan, arrestato da ragazzo dalla polizia, Odoms ritiene che l’ambiente della NFL non sia più il suo.
La reazione del direttore dell’Accademia della Us Air Force che, dopo un episodio di razzismo verbale, convoca docenti e alunni e fa un discorso nettissimo contro il razzismo e pro-diversità, indica che Kaepernick ha cominciato la discussione giusta.
Le polemiche di Trump, fatte nei giorni in cui veniva criticato per l’inazione a Portorico e il tentativo di abolire la riforma Obama naufragava in Senato, avevano come obbiettivo quello di fornire alla propria base qualcosa di cui discutere. Ai bianchi, spettatori Tv del football non interessano le proteste di questi “negri che guadagnano un sacco di soldi”, vogliono il loro inno, la loro partita, lo sport bar dove guardare grandi schermi, bere birra, divorare ali di pollo in salsa piccante (messicana). Trump lo sa e parla a loro, acuendo una crisi razziale che si trascina da Black Lives Matter in poi e che ha visto la comunità nera mobilitarsi in maniera nuova, pacata e capace di non farsi mettere in un angolo. Con le sue parole il presidente ha dato una nuova spinta a questa protesta. Ma ha acuito a suo vantaggio momentaneo le tensioni razziali nel proprio Paese. Meno presidenziale di così è difficile.
La mobilitazione dei neri entra negli stadi. E il quarterback contestatore Colin Kaepernick finisce nel mirino di Trump. L’attacco del presidente scatena la più grande ondata di proteste della storia dello sport Usa. Uno scontro clamoroso che oscura le ragioni della rivolta.