Fra luci ed ombre, il Microcredito può sconfiggere la povertà?
Afua, una donna corpulenta dalla sonora risata, sta discutendo con Eden. Lei è leader di uno dei tanti gruppi di donne che hanno chiesto un prestito, e lui, uno dei funzionari dell’ente di microcredito. I pagamenti settimanali sono in regola, nonostante la stagione delle piogge abbia rallentato i piccoli business qua ad Accra, in Ghana.
Afua, una donna corpulenta dalla sonora risata, sta discutendo con Eden. Lei è leader di uno dei tanti gruppi di donne che hanno chiesto un prestito, e lui, uno dei funzionari dell’ente di microcredito. I pagamenti settimanali sono in regola, nonostante la stagione delle piogge abbia rallentato i piccoli business qua ad Accra, in Ghana.
“God is the King” è il nome del gruppo di prestito, formato interamente da donne, con fragili situazioni economiche, per lo più abbandonate dai propri mariti o vedove. “Gestisco oltre 90 donne, siamo tutti amiche, abitiamo tutte nello stesso quartiere. Cerchiamo solamente di darci una mano” afferma orgogliosamente Afua. “Siamo donne forti, lavoriamo tutto il giorno, per strada o all’interno di piccoli negozi. Dobbiamo prenderci cura dei nostri bambini; questi prestiti sono fondamentali: abbiamo bisogno di espandere i nostri business, non ci sono alternative in questo paese.”
La maggior parte di loro vende cibo o oggetti variegati per strada, caricandoseli sopra la testa, all’interno di ampie ceste. Ceste che dall’arrivo all’aeroporto di Accra, ti circondano e non ti abbandonano più, lasciando quasi immutati, ovunque tu vada, paesaggio e offerta economica ghanese.
Escluse dal sistema bancario, invisibili per il governo, sono decine di migliaia le donne e gli uomini ghanesi che, come Afua, lavorano per strada o in piccoli negozi-baracche, e si rivolgono agli enti di Microcredito.
Piccoli, piccolissimi imprenditori, che per la maggior parte vivono nelle periferie più disastrate del paese, i cosiddetti Zongo.
Dalla sua creazione, come esperimento in alcuni villaggi del Bangladesh durante gli anni ’70, alla grande espansione durante gli anni ‘90, il microcredito è stato uno degli strumenti economici più utilizzati nei paesi in via di sviluppo, permettendo a milioni di poveri di accedere ai servizi bancari tradizionali, dai quali erano stati storicamente esclusi.
Nello specifico, si tratta di una piccola somma di denaro (un micro-prestito anche inferiore a 50 euro), erogato a quei soggetti particolarmente fragili a livello socio-economico e spesso emarginati dalla società (“i poveri”), strettamente finalizzato ad avviare una piccola attività imprenditoriale o a supportare l’espansione della stessa. Grazie alla formazione di questi gruppi di prestito o all’erogazione di micro-prestiti individuali ad oggi sono oltre 200 milioni le persone nel mondo interessate dal microcredito, il cui obbiettivo primario è quello di dare la spinta necessaria per iniziare la scalata verso orizzonti economici meno grigi.
Le banche tradizionali hanno sempre escluso le fasce più povere della popolazione, in quanto erogare piccole quantità di denaro risultava eccessivamente costoso a dei clienti così “difficili” da raggiungere (aree rurali, periferie), da conoscere (che storia si nasconde dietro ciascuno di loro?) e che non davano sufficienti garanzie economiche.
L’ideatore e realizzatore di quella che è stata definita come una delle innovazioni economiche più rilevanti del secondo Novecento per contrastare la povertà, è l’economista e banchiere bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006. Fermamente convinto dell’importanza del microcredito, Yunus ha anche fondato nel 1976 in Bangladesh la Grameen Bank, una delle banche più importanti a livello mondiale che si occupa di Microfinanza. « Un giorno i nostri nipoti andranno nei musei per vedere cosa fosse la povertà » ha affermato Yunus negli anni ’90 in una intervista presso il The Independent.
Ma come funziona il microcredito?
Il principio di Yunus è semplice: riflettere a fondo su ciò che hanno sempre fatto le banche tradizionali e fare esattamente l’opposto. Le banche tradizionali, nei paesi in via di sviluppo, hanno sempre erogato prestiti per lo più a uomini, con delle solide garanzie economiche e a tutti quei clienti che fossero in grado di dar loro informazioni sufficienti sul proprio passato. Gli enti di microcredito, di contro, si rivolgono perlopiù a donne (oltre l’80% dei clienti è donna nei paesi in via di sviluppo), con evidenti fragilità economiche; inoltre i gruppi di prestito hanno un ruolo chiave, in quanto i membri appartenenti ad uno stesso gruppo spesso si conoscono, vivono nello stesso quartiere e si garantiscono a vicenda, facendo in modo che tutti siano in grado di ripagare il prestito (e gli interessi, legati allo stesso).
Grazie ad uno stretto e continuo contatto con tutti i loro clienti, alla loro presenza in ogni località, al ruolo fondamentale dei leader (aiutano a formare e gestire i gruppi, sanno bene dove vive e lavora ciascun membro, raccolgono le quote e aiutano i funzionari nel loro lavoro quotidiano), alle piccole somme settimanali che ogni cliente deve restituire per ripagare il prestito e alla forza dei gruppi, gli enti di microcredito sono arrivati là dove le banche non si erano mai spinte.
Le banche tradizionali sono per lo più interessate al passato dei propri clienti, di contro il microcredito è focalizzato sul loro futuro.
Dietro ogni povero si nasconde un potenziale piccolo imprenditore, e se allo stesso viene data una spinta economica, strettamente focalizzata ad espandere una idea di business (più cibo da vendere per dei semplici venditori ambulanti, del fertilizzante per dei contadini o un frigorifero più grande per i gestori di piccoli negozi) , questa li aiuterà definitivamente ad uscire da quella che è considerata da molti studiosi come una vera e propria “trappola della povertà.”
Perché un’enfasi così marcata sul ruolo delle donne? Secondo Yunus e altri studiosi del settore, il cambiamento parte da loro. Manager naturali, che spesso gestiscono le piccole spese familiari quotidiane, sono il cliente più indicato e affidabile per ricevere un micro-prestito. Inoltre, attraverso una più marcata emancipazione economica femminile, a beneficiarne sarebbe l’intero nucleo familiare, in quanto è stato dimostrato come, nei paesi in via di sviluppo, le donne investano i loro guadagni sulla famiglia (e in particolare modo sull’istruzione e la salute dei propri figli) in percentuale maggiore rispetto ai mariti e uomini in generale.
Le promesse del microcredito sono dunque enormi, partendo dall’indipendenza economica di milioni di donne (e uomini), è possibile eradicare la povertà dalla faccia della terra.
Com’è facilmente intuibile, l’entusiasmo attorno a questo strumento economico è stato enorme (da parte di economisti, politici e filantropi).
Durante la sua storia, il microcredito non è stato solamente celebrato.
Nati come realtà no profit, il cui scopo andava ben oltre il semplice profitto economico, diversi enti di microcredito in giro per il mondo hanno cominciato un processo di commercializzazione verso la metà degli anni ’80, che ha portato alla creazione una nuova forma di banche. La commercializzazione degli enti di microcredito ha generato molti dibattiti e aperte critiche da parte di studiosi e professionisti dello sviluppo: l’enfasi verso tassi di interesse sempre più elevati sui prestiti e la necessità di dover avere dei profitti continui (a spesa dei propri clienti), mette a serio rischio l’intera impostazione concettuale del microcredito, trasformando i poveri in nuove semplici fonti di guadagno per quelli che sono stati definiti potenziali “squali” della microfinanza, dallo stesso Yunus. Inoltre, alcune delle critiche più note bollano i micro-prestiti come troppo piccoli, non sufficienti per far espandere una attività economica, per quanto modesta, lasciando invariata la condizione economica di milioni di poveri, adesso semplicemente più indebitati.
Infine, Yunus è stato aspramente criticato per aver affrontato il problema della povertà dal “lato sbagliato.” Focalizzandosi sulla offerta, il microcredito promette di creare un esercito di imprenditori e attività commerciali. Ma a fronte di un maggior numero di ceste o tavoli con più uova, cosmetici o Yam (il tipico tubero ghanese), chi garantisce che essere verranno nuovamente acquistate? Per dirla semplicemente, ciò che manca nei paesi più poveri non è del cibo o vestiti di seconda mano da acquistare, ma dei clienti pronti a comprarli. Il lato della domanda, dunque.
Quello che era stato definito come il principale strumento anti-povertà, si è trasformato secondo alcuni in un vero e proprio “pericolo” per i paesi più poveri, contribuendo a peggiorare la loro situazione (già estremamente precaria) economica.
Ciò che doveva tirar fuori milioni di poveri dalla trappola della povertà, sembrerebbe essersi rivelato esso stesso una nuova raffinata forma di trappola.
Come è stato possibile passare dal supporto ed entusiasmo totale a questi toni decisamente più tiepidi, se non addirittura fortemente negativi?
Com’è possibile conciliare la crisi degli enti di microcredito in giro per il mondo (seguita ad esempio dal fallimento di alcuni enti indiani nel 2010) e le critiche così aspre verso questo modello, con il sorriso e le speranze di Afua?
L’entusiasmo dietro il microcredito si è sempre basato su un concetto molto semplice: i poveri sono degli imprenditori naturali, con la giusta spinta economica possono uscire, da soli, dalla trappola della povertà. Questa nuova concezione ha senza dubbio contribuito ad arricchire la visione che abbiamo della povertà e dei poveri, tutt’altro che pedine passive e senza volontà.
Tuttavia, come ha affermato in un’intervista su Forbes del 2011 Ester Duflo, docente di Riduzione della Povertà e Sviluppo Economico al Mit di Boston e considerata fra gli economisti più influenti del pianeta, l’entusiasmo è stato eccessivo. I poveri gestiscono piccoli business (piccolissimi, molto spesso l’asset più importante che possiedono è un tavolo) non in quanto guidati da un illuminato spirito imprenditoriale, ma poiché, in assenza di lavoro, non hanno delle alternative. I tassi di interesse elevati (possono superare il 60% annuo), le rate settimanali del micro-prestito da iniziare a ripagare poco dopo la sua erogazione e le somme fin troppo piccole dei micro-prestiti che non permettono una espansione sostanziale dei business, sono alcuni degli elementi limitativi del microcredito come misura anti-povertà.
Tuttavia, non per questo si può parlare di fallimento.
Il fervore, forse non del tutto giustificabile, è stato seguito da un altrettanto ingiustificabile disdegno e pessimismo.
Il microcredito non ha migliorato sostanzialmente il reddito e il benessere di milioni di persone. Ciononostante, esso ha aiutato a supportare economicamente i business dei più poveri, aumentando nello specifico la loro libertà di scelta riguardanti il proprio lavoro (ad esempio cosa vendere o come conservare i prodotti) e a gestire le piccole spese familiari quotidiane. Inoltre, in alcuni paesi, lo stesso è considerato un elemento importante per permettere ai piccoli imprenditori di finanziare nuove idee di business, comprare importanti asset per l’espansione degli stessi (dal frigorifero per conservare la merce alla piccola barca per pescare il pesce da vendere) e aiutarli a gestire in maniera più serena situazioni improvvise di stress economico.
Rispondendo alla domanda iniziale, dunque, il microcredito non porrà fine alla povertà, ma rimane un importante strumento finanziario per i poveri.
La sua enorme espansione e la richiesta continua di micro-prestiti da parte di milioni di persone in ogni parte del mondo, fanno comprendere quanto le famiglie più disagiate apprezzino il microcredito come principale strumento che li aiuti a gestire meglio la loro complicata vita finanziaria.
In tal senso, lo stesso deve essere accompagnato da un ventaglio, ben più ampio, di interventi. L’assistenza sanitaria, una maggiore istruzione, la possibilità di trovare un lavoro fisso e dei diretti sussidi economici, sono solo alcuni degli elementi fondamentali per combattere quella che è la battaglia più difficile di tutte.
Nonostante la continua minaccia di pioggia, un presente difficile e un futuro incerto, Afua rialza la cesta e la poggia sul capo.
Con estrema dignità e eleganza, sorridendomi, si allontana.
Afua, una donna corpulenta dalla sonora risata, sta discutendo con Eden. Lei è leader di uno dei tanti gruppi di donne che hanno chiesto un prestito, e lui, uno dei funzionari dell’ente di microcredito. I pagamenti settimanali sono in regola, nonostante la stagione delle piogge abbia rallentato i piccoli business qua ad Accra, in Ghana.
“God is the King” è il nome del gruppo di prestito, formato interamente da donne, con fragili situazioni economiche, per lo più abbandonate dai propri mariti o vedove. “Gestisco oltre 90 donne, siamo tutti amiche, abitiamo tutte nello stesso quartiere. Cerchiamo solamente di darci una mano” afferma orgogliosamente Afua. “Siamo donne forti, lavoriamo tutto il giorno, per strada o all’interno di piccoli negozi. Dobbiamo prenderci cura dei nostri bambini; questi prestiti sono fondamentali: abbiamo bisogno di espandere i nostri business, non ci sono alternative in questo paese.”
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