All’indomani dell’annuncio americano dell’evacuazione della rappresentanza diplomatica a Sana’a, anche le ambasciate francese e inglese hanno dichiarato di aver sospeso ogni attività e invitato i rispettivi connazionali a lasciare il Paese il più presto possibile, a causa del progressivo deterioramento del quadro di sicurezza.

Si aggrava ulteriormente, dunque, la situazione dello Yemen, da alcuni mesi alle prese con una fase di accentuata instabilità politica, culminata il 6 febbraio con la presa del potere del movimento sciita al-Houthi, il quale ha sciolto il Parlamento e annunciato la sua sostituzione con un consiglio nazionale transitorio, incaricato di eleggere a sua volta un consiglio presidenziale. Nel piano degli Houthi, questo organismo dovrà governare il Paese durante una fase di transizione, della durata di circa due anni, durante la quale una nuova bozza delle Costituzione dovrebbe essere sottoposta a referendum popolare. Proprio da qui si dovrebbe partire per comprendere cosa è andato storto nello Yemen da quando, solo pochi anni fa, il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e il resto della comunità internazionale si erano fatti carico di guidare un processo di transizione che in molti si auspicavano potesse essere meno complesso rispetto a quello in atto in altri Paesi del Medioriente.
Così non è stato, nonostante l’ottimismo ostentato dagli USA e dai loro alleati. Già nei primi mesi della sua amministrazione, il Presidente dimissionario Hadi ha dovuto fare i conti con l’espansione di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) nel sud del Paese, dove il gruppo era riuscito a prendere per un breve periodo di tempo il controllo di vaste porzioni del governatorato di Shabwa e di altre aree limitrofe. Parallelamente, era stato avviata una Conferenza di Dialogo Nazionale, che avrebbe dovuto gettare le basi per una nuova fase politica. Dopo numerosi rinvii, il processo era sfociato nell’elaborazione di una bozza costituzionale, che prevedeva la creazione di una federazione di sei entità territoriali. Varie forze politiche (tra le quali gli Houthi e il movimento separatista meridionale al-Hirak), tuttavia, avevano prontamente respinto questa ipotesi, alcuni chiedendo che la federazione comprendesse solo due regioni, altre, invece, che non fosse messa in discussione l’unità del Paese.
Le forti divergenze politiche hanno, di fatto, tenuto per diversi anni il Paese in una sorta di limbo, una fase durante la quale le condizioni di vita della popolazione si sono progressivamente aggravate, soprattutto per l’incapacità dell’autorità statuale di esercitare la propria sovranità sul territorio. Viene oggi da chiedersi se la mediazione internazionale abbia davvero giovato al Paese o se invece, impedendo alle rivolte popolari di sfociare in un effettivo cambio di regime, esso non abbia finito per favorire l’instabilità attuale e l’ascesa degli Houthi, forti della loro presunta verginità politica.
Più che un punto di svolta, la chiusura delle principali Ambasciate occidentali rappresenta il manifesto del fallimento della “Primavera yemenita” e solleva una serie di importanti interrogativi.
Come già avvenuto in passato, gli USA e i loro alleati si dimostrano alleati inaffidabili, pronti a fuggire nei momenti di maggiore criticità. L’abbandono della Libia rappresenta, da questo punto di vista, uno degli esempi più significativi ed eclatanti. Se l’obiettivo è in questo caso quello di fare pressioni sugli Houthi, accentuando la condizione di isolamento internazionale in cui viene in questo modo a trovarsi lo Yemen, è innegabile che la chiusura delle rappresentanze diplomatiche privi questi Paesi di ogni residua capacità di influenza.
Si apre, dunque, una fase di forte incertezza sul futuro del Paese e il rischio di una guerra civile appare sempre più concreto. Se è vero che gli Houthi non agiscono completamente da soli, beneficiando anche del sostegno di alcuni importanti attori politici e di alcuni settori delle forze armate, l’opposizione al movimento sciita non sembra, per ora, disposta a scendere a compromessi. Opposizione guidata da AQAP, pronta a sfruttare l’attuale fase di instabilità per accrescere la propria influenza sui governatorati meridionali, anche attraverso alleanze con le tribù locali. La situazione appare particolarmente critica a Marib, zona ricca di petrolio, e per questo un possibile prossimo obiettivo dell’avanzata sciita. Gli Houthi hanno sinora dimostrato una buona lungimiranza strategica e sono consapevoli del fatto che, senza il controllo delle risorse naturali di cui dispone il Paese, non saranno in grado di consolidare la loro posizione di leadership.
A complicare ulteriormente il quadro, la recentissima dichiarazione di fedeltà allo Stato Islamico fatta da alcune fazioni di AQAP, nello specifico quelle attive nei governatorati centrali di Sana’a e Dhamar. Uno sviluppo per certi versi inatteso, considerato il forte radicamento sul territorio del gruppo guidato da al-Zawahiri, ma che non muta in maniera significativa il quadro della situazione. Un quadro drammaticamente e forse irrimediabilmente compromesso.
All’indomani dell’annuncio americano dell’evacuazione della rappresentanza diplomatica a Sana’a, anche le ambasciate francese e inglese hanno dichiarato di aver sospeso ogni attività e invitato i rispettivi connazionali a lasciare il Paese il più presto possibile, a causa del progressivo deterioramento del quadro di sicurezza.