Angela Merkel è al quarto mandato ma non si può certo parlare di vittoria. La sfida più difficile inizia ora. Dovrà utilizzare tutte le sue abilità di manovra per formare il governo. Per far uscire la Germania e l’Europa dalla crisi politica però serve di più.
Somiglia a una batosta politica il quarto successo elettorale con cui Angela Merkel eguaglia il record di vittorie di Helmut Kohl. L’Unione CDU/CSU si ferma al 33%, otto punti in meno rispetto alle ultime elezioni, quando la Kanzlerin aveva sfiorato l’exploit della maggioranza assoluta dei seggi (riuscito solo a Konrad Adenauer nel 1957) con il 41,5% dei consensi e 311 seggi su 631. E’ il risultato peggiore per i democristiani dal 1949, quando si svolsero le prime elezioni del dopoguerra.
Non è andata meglio al junior partner della Grande Coalizione: l’SPD guidato da Martin Schultz scende al 20.5%. Per trovare una percentuale così bassa bisogna risalire alla Repubblica di Weimar. E la sfida più attesa, quella per il terzo posto, considerata decisiva per la governabilità del Paese, se l’aggiudica il partito di estrema destra Alternative fur Deutschland (AfD) con oltre il 12% voti. È la prima volta che la destra nazionalista trova posto in Parlamento dal 1961, quando perse gli ultimi seggi il Deutsche Partei, fino ad allora utile stampella dei governi di Adenauer. E l’AfD è altra cosa: mai nel dopoguerra una forza anti-sistema e revisionista aveva conquistato uno spazio così rilevante nella cittadella della democrazia tedesca. In sintesi, una disfatta. Che segna l’inizio della sfida politica più difficile per Angela Merkel.
Se si tentasse di applicare a queste elezioni il clintoniano “It’s the economy stupid” il risultato sarebbe inspiegabile. La disoccupazione sta sotto al 4%, la crescita del Pil intorno al 2%, il surplus commerciale che fa dannare i partner è in crescita e il bilancio in pareggio, tanto che CDU e liberali hanno potuto promettere un taglio alle tasse (di 20 miliardi il primo, 30 il secondo) senza violare il rigore. L’economia è in salute, anche se il modello tedesco non è senza pecche: la locomotiva d’Europa è potente ma vecchia, l’innovazione tarda, l’educazione stenta, le disuguaglianze aumentano. Ma la partita si è decisa altrove.
L’AfD nasce quattro anni fa dall’inquietudine di alcuni economisti conservatori contrariati dal bailout per la Grecia. Il movimento sembrava destinato a spegnersi poco dopo, ma ha trovato una nuova vita (e una nuova identità) nell’anno in cui Angela Merkel ha aperto ai rifugiati, diventando prima il partito delle porte chiuse, poi un partito xenofobo tout court. E dal 2015 l’AfD si è mosso con successo alla conquista dell’elettorato democristiano sul fianco destro lasciato scoperto dalla Cancelliera. A differenza di altri partiti dell’estrema destra europea come il Front National, AfD non ha cercato di cambiare pelle per rassicurare l’elettorato moderato. Anzi. Si è andato via via radicalizzando e lo scontro interno tra moderati e radicali ha visto la sconfitta della leader Frauke Petry, preoccupata che le derapate estremiste di Alice Weidel e Alexander Gauland potessero spaventare l’elettorato tedesco. Non è andata così.
In quel 2015 sembra essere entrata in un loop la dinamica politica tedesca, poi resa ancora più cupa dagli attentati terroristici. A nulla è servito chiudere affannosamente le porte e rimandare sine die il ricongiungimento delle famiglie dei rifugiati rimaste spaccate. Ed è un amaro paradosso che la Cancelliera per la quale è stato coniato il neologismo merkeln – verbo che significa non impegnarsi con chiarezza, rimandare le decisioni – sia stata punita per una delle sue poche scelte audaci. E forse per non aver saputo poi offrire all’elettorato altro che non fosse la continuità e la gestione degli affari correnti.
Oggi servirà tutta la sua abilità di manovra per trovare una maggioranza in un quadro politico così frammentato (sei partiti nel parlamento non si vedevano dagli anni ’50). Tanto più che le disastrose esperienze elettorali dei partner che hanno affiancato la CDU a Berlino sconsigliano un’eccessiva collaborazione con la Angela Merkel. La SPD si è già tirata fuori e andrà a presidiare l’opposizione per non lasciarne la guida all’estrema destra. Così la coalizione più probabile è l’immaginifica Giamaica, che tiene insieme come la bandiera dello stato caraibico il nero dei democristiani, i verdi e il giallo dei liberali, tornati in Parlamento dopo la clamorosa debacle del 2013. Fu l’unica esclusione dal 1949, una sconfitta traumatica maturata quattro anni dopo un risultato trionfale (14.5%), che aveva consegnato al partito dicasteri cruciali come l’economia e gli esteri. Il leader Christian Lindner ne ha tratto la stessa lezione imparata ora da Schultz: nei governi di coalizione il potere logora chi ne ha di meno e non sa distinguersi dal socio di maggioranza.
È facile immaginare che Lindner farà pesare il suo ingresso al governo e si smarcherà poi quando possibile dalla CDU, tenendo la barra dritta sul programma, che punta a smantellare altri pezzi dell’economia sociale di mercato, tagliare le tasse, difendere la sovranità economica tedesca dai pericoli di una eccessiva integrazione europea. Eserciterà insomma quel potere di coalizione che in Italia conosciamo bene, in Germania meno. Come il suo programma pro-business ed euro-diffidente possa essere compatibile con l’agenda dei verdi dovrà capirlo Angela Merkel. E anche all’interno dell’Unione democristiana le tensioni già emerse tra la Cdu e la sorella bavarese più destrorsa Csu sono destinate ad acuirsi dopo le elezioni.
Oggi insomma non si può più dare per scontata la stabilità della Germania. E la costante ricerca dell’equilibrio rischia di paralizzare sia Berlino che l’Europa. L’innegabile maestria di Angela Merkel nell’arte della governabilità non basterà, se priva di quella visione politica che troppo spesso le è mancata. Perché né la Germania né l’Europa possono permettersi uno stallo, o una cauta navigazione lungo costa. Senza visione, l’elettorato non si riconquista. E l’Europa rischia di affondare.
Per quanto siano diversi, destra liberale e destra estrema, dentro e fuori dall’esecutivo, eserciteranno una pressione contraria all’integrazione europea. E tanto le necessità di governo quanto la volontà di recuperare i voti perduti potrebbero portare la Cancelleria ad accantonare il rilancio dell’Europa, evocato negli ultimi mesi su diversi dossier: dall’emancipazione dalla tutela statunitense, alla revisione del Trattato di Dublino, fino ai progetti di riforma dell’Eurozona presentati dalla Francia e in parte già accolti da Berlino. Anche se non è chiaro se hanno in mente la stessa cosa il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble ed Emmanuel Macron quando chiedono di insediare un ministro delle Finanze dell’Eurozona, costituire un bilancio comune e trasformare il Fondo salva-Stati in un fondo monetario europeo.
I sospetti sono leciti. Ma fin qui, più che l’aspirazione all’egemonia della Germania, è stata la difesa arcigna e miope del suo intereresse contingente a indebolire l’Europa. Una Germania incapace di farsi carico delle sue responsabilità, che si pensa come una grande Svizzera, brava a fare i conti, meno a disegnare il futuro. Di questa ambiguità Angela Merkel è stata una perfetta incarnazione, guidando la Germania e il continente con abilità tattica, ma troppo spesso, scarsa profondità strategica. La Cancelliera ha portato a nuovi livelli l’arte democristiana della governabilità, costringendo un intero continente a seguire con apprensione i risultati elettorali dei più impronunciabili lander. Ora che è arrivata all’ultimo mandato, il più complicato, la grande procrastinatrice deve farsi statista per pilotare la Germania (e l’Europa) fuori dalle secche in cui si è incagliata.
@luigispinola
Angela Merkel è al quarto mandato ma non si può certo parlare di vittoria. La sfida più difficile inizia ora. Dovrà utilizzare tutte le sue abilità di manovra per formare il governo. Per far uscire la Germania e l’Europa dalla crisi politica però serve di più.