Nella città medaglia d’oro della Resistenza si consumava una tragedia italiana sotto gli occhi del mondo intero. Eppure gli elementi per evitare il peggio c’erano tutti
Con l’attuale direttore di eastwest, Giuseppe Scognamiglio, ho avuto la fortuna di condividere nell’estate del 2001 una breve ma intensa esperienza di lavoro al primo piano della Farnesina come collaboratore di Renato Ruggiero, Ministro degli Esteri del secondo Governo Berlusconi. Fino a quando Ruggiero non decise di dimettersi nel gennaio del 2002 a seguito della freddezza di Ministri come Bossi e Tremonti per l’adozione dell’Euro in Italia. Quelli, visti dall’interno del “palazzo”, furono mesi eccezionali in cui “si dettero appuntamento” molti episodi destinati successivamente a cambiare il corso della politica interna e internazionale.
Il più scioccante tra tutti ovviamente l’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre a New York, l’applicazione per la prima volta nella storia dell’articolo 5 della Nato e la creazione di una forza di coalizione per sradicare le centrali del terrore in Afghanistan. Ma già due mesi prima, alla metà di luglio, il G8 di Genova aveva mostrato agli occhi del mondo tutta la complessità e le difficoltà di instaurare un dialogo tra i Governi e il popolo no global, in quella fase particolarmente strutturato.
Quello di Genova era il quarto vertice internazionale ospitato dall’Italia, che diventava per la prima volta G8 (sia pure solo per alcune sessioni) per la partecipazione della Russia che solo l’anno prima aveva incoronato Putin come suo indiscusso “zar”. La regia della preparazione del vertice sarebbe toccata unicamente a Palazzo Chigi ma il Ministro degli Esteri, soprattutto dopo “l’incursione” a Palazzo Grazioli qualche settimana prima di Gianni Agnelli e di Henry Kissinger, aveva convinto Berlusconi che era forse meglio ascoltare i consigli di un diplomatico di lungo corso come Ruggiero, ben conosciuto e apprezzato all’estero, che sarebbe stato in grado di tirare un colpo di spugna sull’immagine internazionale del capo del Governo, fortemente compromessa dalla copertina dell’Economist che lo bollava come “Unfit to lead Italy”.
Ci furono varie riunioni a Palazzo Chigi, alla Farnesina e al Viminale dove il neo Ministro ligure Claudio Scajola voleva mostrare tutte le sue capacità organizzative al “cavaliere”. Tra le “veline” apocalittiche dei “servizi”, le batterie antimissili e la sospensione della libera circolazione alle frontiere Schengen quello che emergeva in tutta chiarezza era l’assoluta inadeguatezza di quell’esecutivo di governare quell’evento. Fu difficile per il Governo Berlusconi comprendere le ragioni e l’effettiva “pericolosità” dei movimenti “no global” confondendo tutto, Black bloc, tute bianche e ragazzi animati dalle migliori intenzioni. Fu più semplice derubricare tutta l’ondata di protesta a un mero episodio di ordine pubblico da contrastare con lacrimogeni e manganelli come già era successo a Napoli mesi prima sotto il Governo di sinistra guidato da Amato. Fu uno degli errori principali di Genova. Unica eccezione quella del Ministro degli Esteri dell’epoca, Renato Ruggiero, che aveva già sperimentato sulla propria pelle, da primo direttore del Wto, cosa voleva dire aprire un tavolo di confronto con le Ong e con i “no global” anche quando frange violente di alcuni di loro mettevano a ferro e fuoco una città come accadde nel 2000 a Seattle per il vertice mondiale sul commercio.
Diciamo subito che non fu Berlusconi e nemmeno Scajola a indicare Genova come sede del G8. Era stato Massimo D’Alema, Presidente del Consiglio dal 1998 al 2000, a indicare la città per il vertice forse su indicazione del compagno di partito Burlando. Berlusconi con Scajola fece almeno tre sopralluoghi nel capoluogo ligure, occupandosi soprattutto delle facciate dei palazzi da coprire e delle fioriere da disporre nel tragitto dei leader. Ma poca attenzione mise sul merito dei dossier, che contenevano rispetto ai vertici precedenti qualcosa di veramente innovativo quanto a lotta alla povertà e creazione di un fondo mondiale per sconfiggere l’Aids. Berlusconi puntava soprattutto a stringere rapporti amichevoli con i leader che più sentiva vicini alle sue corde, dal Presidente americano George W. Bush a quello russo Vladimir Putin. Con Jacques Chirac non c’era buona chimica mentre con l’inglese Tony Blair, fautore della “terza via”, si aprivano prove di dialogo.
Dopo venti anni, la verità dell’ex Ministro Scajola, oggi sindaco di Imperia, pur condannando Diaz e Bolzaneto, consegna la teoria degli infiltrati violenti che cambiarono il corso degli eventi: “Da una parte – ha dichiarato Scajola pochi giorni fa – c’erano manifestanti arrivati a Genova per metterla a ferro e fuoco, infiltrati insieme ai contestatori pacifici che avevamo deciso di accogliere. È successo l’irreparabile, un inferno che poi ha portato all’uccisione di Giuliani da parte di un altro giovane che si sentiva assediato, trovatosi nella paura di essere assalito dalla massa e che ha sparato. E il giorno dopo una pagina infamante per l’Italia. Una macelleria fatta alla Diaz e torture a Bolzaneto che non possono trovare nessuna giustificazione in uno Stato democratico”. “Avevamo provato a dare indicazioni precise, – ha detto anche Scajola – a non intendere i manifestanti come nemici ma come persone che manifestavano le loro idee. Tutto è trasceso. Io stesso consegnai personalmente a tutti gli operatori un nostro volumetto. All’interno diceva: “I manifestanti non sono nemici, il vostro compito non può che essere di rispetto nel rispetto”. Ma pochi tra gli addetti all’ordine pubblico devono aver fatto tesoro dell’opuscolo se è vera l’intercettazione presentata in tribunale tra due agenti di polizia dopo la morte di Giuliani in cui una voce femminile si sente dire: “Uno a zero per noi”.
Gli elementi per evitare il peggio c’erano tutti. Il Genoa Social Forum si era costituito per preparare le rivendicazioni in vista del G8. Era formato da oltre mille sigle anche diverse tra loro. Aderivano anche partiti come Rifondazione comunista e i Verdi, movimenti cristiani come Pax Christi e la Federazione delle Chiese evangeliche e sindacati come la Fiom e i Cobas. C’era anche la rete Lilliput, insieme a Ong che operano nei Paesi più poveri, centri sociali come il Leoncavallo, WWF e Legambiente. Ruggiero, alla vigilia del G8, convocò alla Farnesina il portavoce del Genoa Social Forum, Vittorio Agnoletto. Ruggiero cercò di ottenere da Agnoletto un “via libera” almeno sui temi dello sviluppo che il G8 avrebbe affrontato a cominciare da una road map precisa per rispettare i cosiddetti Millenium Goals delle Nazioni Unite su sanità, ambiente e lotta alla povertà. Ma non ci fu nulla da fare. Le posizioni erano troppo lontane e, soprattutto, i “no global” non si fidavano del Governo Berlusconi. L’obiettivo era abbattere la zona rossa. Insomma, un nulla di fatto che però spiazzò almeno una parte del movimento che si era presentato alla Farnesina con un atteggiamento costruttivo.
Ruggiero lavorò anche per convocare a Roma come “osservatori” del vertice un gruppo di personalità di alto profilo. A guidare i lavori avrebbe voluto il premio Nobel per l’Economia, Amartya Sen, studioso della globalizzazione e dei suoi effetti, il quale però declinò l’invito. Non altrettanto fece Mary Robinson, ex Presidente dell’Irlanda ed ex Alto commissario per i diritti dell’uomo. Era un mondo totalmente nuovo per Berlusconi che si prestò comunque di buon grado a ricevere le personalità.
Alla vigilia di Genova, forse terrorizzato dalle “veline” sfornate dal Viminale a getto continuo, il più impaurito di tutti appariva proprio il capo del Governo. Un mese prima di Genova, il 15 e 16 giugno del 2001, Berlusconi, reduce da un successo elettorale senza precedenti sull’Ulivo di Rutelli (ma senza ancora aver presentato il suo programma alle Camere), prese parte con Ruggiero al Consiglio europeo della presidenza svedese a Goteborg. Berlusconi rimase scosso dalla portata delle proteste in terra svedese e soprattutto dalla risposta molto dura della polizia svedese che ridusse quasi in fin di vita un giovane manifestante.
Qualche settimana più tardi, a Palazzo Chigi, Berlusconi riunì tutti gli alti funzionari impegnati alla preparazione di Genova. C’era anche il capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Berlusconi lo fissò negli occhi e gli chiese: “Lei mi può assicurare che a Genova non succederà nulla di quanto abbiamo visto a Goteborg?”. La risposta di De Gennaro non sembrava lasciare dubbi: “Presidente, il modus operandi del nostro personale è totalmente diverso da quello della polizia svedese”. Berlusconi fece una smorfia ma non sembrò affatto soddisfatto della risposta.
Il resto è cronaca consegnata agli atti processuali. Nel tempo ognuno si è costruito la propria verità di comodo per alleggerire le responsabilità o scaricarle in capo a qualcun altro. Genova segnò, per molti aspetti, la fine dell’innocenza, la fine dei rapporti duri ma tutto sommato leali tra manifestanti e polizia. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, che aveva combattuto nell’estate del 1960 contro il Governo Tambroni e il congresso dell’Msi, si consumava una tragedia italiana sotto gli occhi del mondo. Ma rispetto al passato qualcosa stava cambiando. Quasi tutti i manifestanti erano “armati” più che di molotov, di piccole telecamere. Tutti riprendevano tutto. Una nuova modalità di fare informazione che, da allora, prese piede e si diffuse a macchia d’olio per ogni altro tipo di evento e che ebbe il merito di smascherare sul nascere qualunque tipo di verità di Stato. Molto resta ancora oscuro, come tutto ciò che avvenne nella notte della Diaz e nella centrale operativa dove pare abbia fato visita il vice premier di allora Gianfranco Fini.
Quello che so (e di cui sono stato testimone diretto) è che molti giorni dopo il vertice la batteria del Viminale e il centralino della Farnesina alle ore più improbabili cercavano di contattare il Ministro degli Esteri Ruggiero. A cercarlo erano i suoi colleghi europei: il Ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, dell’Austria, Benita Ferrero Waldner, e della Francia, Hubert Vedrine. Tuti volevano sapere la stessa cosa: che fine avevano fatto i loro ragazzi e le loro ragazze andate a Genova e che non avevano ancora fatto ritorno a casa. Le famiglie non ne sapevano nulla da giorni. Una situazione tipo Argentina o Cile, che gettava un’ombra sinistra sul vertice già macchiato del sangue di Giuliani. Si cancellava in questo modo ogni possibile successo di un vertice che per primo aveva affrontato in modo forte i temi dello sviluppo, creato il fondo contro l’Aids e aveva affrontato questioni che poi sarebbero state il pane quotidiano di tutti i successivi vertici G8 e G20 fino a quello che si terrà a Roma alla fine dell’ottobre prossimo.
La morte di Giuliani fu un duro colpo di immagine per Berlusconi. In quel momento la cosa più semplice fu individuare tutte le responsabilità in capo a De Gennaro. Berlusconi convocò Ruggiero e chiese di sondare il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per sapere se il nome di De Gennaro sarebbe stato gradito al Palazzo di vetro come successore di Pino Arlacchi all’antidroga Onu di Vienna, che stava lasciando. Annan, da navigato diplomatico, capì al volo il problema ma annacquò tutto con la rosa di candidati fra i quali inserire “anche” De Gennaro. Ma la cosa finì lì. Nel frattempo nessuno aveva comunicato neppure informalmente a De Gennaro che qualcuno stava preparandogli le valige per Vienna. A distanza di anni l’ex capo della polizia confessò a Gianni Letta (che sapeva tutto): “Se mi aveste detto quanto si guadagnava a Vienna forse avrei accettato subito”.
Nella città medaglia d’oro della Resistenza si consumava una tragedia italiana sotto gli occhi del mondo intero. Eppure gli elementi per evitare il peggio c’erano tutti