È la stessa Apple a darne l’annuncio: il rublo perde posizioni, le sue continue fluttuazioni sono preoccupanti. Allora meglio chiudere il negozio online in Russia.
E’ il sintomo che il terremoto valutario che sta investendo il paese sta prendendo sempre più le dimensioni di un circolo vizioso, colpito anche dalla “faida” tra il petrolio saudita e quello del North Dakota, proprio mentre gli Stati Uniti promettono nuove sanzioni economiche contro il Cremlino.

Ancora nella prima metà di quest’anno, quasi il 70% delle esportazioni russe erano costituite da gas naturale e petrolio, ma ad oggi, la spirale discendente ha portato il rublo a perdere il 30% del suo valore contro il dollaro.
Per evitare la recessione, Mosca avrebbe bisogno di mantenere il costo del petrolio sui 90 dollari al barile. Eppure i Sauditi giocano in contropiede, creando un surplus e portando il costo da 110 a 70 dollari. In mezzo a questo Triangolo delle Bermuda, c’è il Caucaso, e non a caso la Georgia.
Anche la sua moneta, il lari, ha subito una caduta scivolosa. Una svalutazione assordante verificatasi in questi giorni, fino alla perdita di 6.3 punti percentuali rispetto al dollaro, che ha così regalato al paese il nuovo triste primato degli ultimi dieci anni.
E’ un danno collaterale dell’interdipendenza geografica ed economica del paese rispetto a una delle regioni più ricche di oro nero del mondo. Se la moneta russa va giù, l’inflazione invece sale, e così anche il prezzo dei beni primari: improvvisamente una bottiglia di vino importata costa tre volte quanto un enofilo l’avrebbe pagata qualche mese fa. Ciò potrebbe suggerire che, oltre al fatto che, se siete dei vinicoltori, è il momento giusto per investire in Georgia, Tblisi dovrebbe svalutare la propria moneta per mantenere le sue esportazioni in Russia ed essere considerata un buon partner commerciale dai vicini di casa.
Non è tuttavia così semplice.
La Georgia è sempre più vicina al trasformarsi in una seconda Crimea. Nel cuore della “polveriera” Caucaso, a insidiare l’unità georgiana non c’è solo la crisi economica galoppante e le rotte petrolifere contese. Come una spada di Damocle, è il puzzle identitario delle minoranze entiche a minacciare la stabilità dell’area.
Leonid Tibilov, leader della repubblica “de facto” indipendente dell’Ossezia del Sud, ha dichiarato lo scorso 10 dicembre che sarebbe pronta la sigla di un accordo con Mosca, che avvicinerebbe indissolubilmente le repubbliche separatiste georgiane al disegno nazionalista russo. Un nuovo livello di integrazione votato alla partnership che riapre per Tblisi vecchie ferite.Tutto ciò mentre Alla Zhioeva, l’ex ministro dell’educazione autoproclamatosi presidente della regione georgiana al centro del conflitto tra Tblisi e Mosca nel 2008, rivendica la vittoria alle elezioni dell’Ossezia del Sud dello scorso giugno, annullate il 27 novembre da parte della Corte Suprema.
Putin non è nuovo a questo tipo di accordi: lo scorso 17 Novembre, aveva firmato con l’autorità abcasa, l’altro territorio separatista georgiano, un patto che concede alla Russia un ruolo dominante negli affari militari e nella politica economica dell’enclave (Putin ha promesso a quest’ultima dei sussidi, che dovrebbero arrivare ad ammontare anche a 270 milioni di dollari nei prossimi tre anni), oltre a rendere più semplice per i residenti in Abkhazia ottenere la cittadinanza russa.
“Sono sicuro che la cooperazione e la partnership strategica tra Russia e Abkhazia continuerà a rafforzarsi”, ha detto il presidente russo, chiosato da Raul Khadzhimba, suo omonimo abcaso, il quale ha riferito “i legami con la Russia ci offrono garanzie di sicurezza”. Il tutto celato da un tentativo di difesa etnica dei russi che vivono ai confini con la Federazione, similmente a quanto accaduto in Crimea, seppur con le dovute differenze (in Abkhazia infatti la maggioranza della popolazione non è né russa né russofona).
I legami con i gruppi terroristici
Sul Caucaso spira dunque la buriana, nonostante Stati Uniti ed Europa provino a contrastare gli effetti, seppur flebilmente, del drastico cambiamento della geopolitica del Caucaso (e in generale di una regione diffusa che si spinge dal Mar Nero fino ai confini della penisola anatolica): offerta di petrolio e accordi economici tornano a essere scanditi da guerre minacciate e realmente esplose. Alla base, accanto ai rivolgimenti politici per la destabilizzazione di poteri e governi consolidati negli anni, c’è la conquista di avamposti strategici.
In questo scenario scompaginato, il parlamento georgiano sta infatti cercando di prevenire che i suoi cittadini combattano in altri paesi, seguendo l’impulso delle minoranze musulmane georgiane che partecipano al disegno dei militari islamisti in Siria.
L’8 dicembre Zelimkhan Chatiashvili, un ragazzo di 21 anni della regione georgiana di Pankisi Gorge, è stato ucciso in Siria a Kobane. È l’ottavo episodio di questo tipo, quando la stessa popolazione della zona attesta che in 60 hanno preso la strada verso Damasco per andare a combattere. Salendo di grado, troviamo Tarkhan Batirashvili, conosciuto in Medio Oriente con il nome di Omar al-Shishani e ritenuto il leader dei militanti fedeli allo Stato Islamico.
L’attenzione mediatica per il fenomeno è in crescita, e la novità arriva in questi giorni dalla provincia siriana di Latakia, che resta all’esterno del controllo del regime nonostante la riconquista, a giugno, della città armena di Kassab. In questa terra occupata da muhajireen e dalla coalizione indipendente jihadista, Jabhat Ansar al-Din, si affaccia con sempre maggiore prepotenza il gruppo degli Jamaat Jund al-Qawqaz, anche definito dei Guerriglieri Caucasici.
Affiliato con il gruppo terroristico degli Emirati Caucasici, che raccoglie al suo interno anche Jaysh al- Muhajireenwa al-Ansar, questa brigata cecena opera indipendentemente dallo Jabhat al-Nusrah e dall’ISIS, ma ha forti legami con al-Qaeda, e ha preso parte a diverse battaglie nella provincia di Latakia, come all’offensiva a Kassab. Il loro obiettivo è quello di opporsi al regime di Bashar al-Assad in Siria, di contrastare l’infiltrazione russa in Cecenia e, parallelamente, in Georgia.
Sulla loro pagina Facebook rivendicano di essere un gruppo di mujaheddin caucasico con lo scopo di unire i popoli della regione contro i nemici dell’Islam. Sebbene non siano ancora riusciti a raggiungere il controllo compatto di un territorio, e i loro proseliti siano poco popolari nel Nord del Caucaso (almeno a detta di diversi esperti russi), la minaccia terroristica esiste, e rappresenta l’aspetto più determinante dell’insorgenza di gruppi simili e della loro estensione a macchia d’olio in aree relativamente distanti tra loro.
È la stessa Apple a darne l’annuncio: il rublo perde posizioni, le sue continue fluttuazioni sono preoccupanti. Allora meglio chiudere il negozio online in Russia.