Che ci fa una donna coperta da un niqab in un talk show della televisione pubblica tedesca? Questa domanda se la sono posta in molti spettatori domenica sera, guardando il talk show Anne Will, condotto dall’omonima moderatrice. Il tema su cui dibattere era : “La mia vita per Allah – Come mai sempre più giovani si radicalizzano?”. A precedere il talk show era stato il giallo “Borowski e la ragazza perduta” della serie poliziesca cult “Tatort”, che dal 1970 a oggi, incolla ogni domenica milioni di spettatori al piccolo schermo. Anche il plot del film riguardava la vicenda di una ragazzina tedesche prima convertitasi all’islam e poi radicalizzatasi.
Tra gli invitati del talk show c’erano il noto politico cristianodemocratico Wolfgang Bosbach, l’imam di Berlin Neukölln Mohamed Taha Sabri, l’esperto in islam e radicalizzazione di origini israelopalestinesi Ahmad Mansour. Inoltre il padre di una ragazza che dopo essersi convertita è anche partita per la Siria. L’unico contatto che il genitore ha ancora con la figlia sono sms che gli arrivano di tanto in tanto spediti dal cellulare della ragazza. “Ma non so né dove sia, né se gli sms li manda veramente lei” spiega in trasmissione il padre. E infine c’era lei, Nora Illi, 32enne cittadina svizzera convertita all’islam e ora portavoce delle donne nel Consiglio centrale islamico in Svizzera. Per molti spettatori il livello di irritazione era salito ulteriormente, sentendo Illi sostenere per esempio che la donna gode di assoluta considerazione da parte del maschio musulmano e che in fondo la decisione di alcune giovani di recarsi in Siria, non doveva essere considerato un dramma. Gli altri ospiti in studio avevano replicato con fermezza e punto su punto. Ciò nonostante il giorno dopo i media si chiedevano se il servizio pubblico in questo caso non avesse esagerato nell’intento di essere piattaforma di dialogo, confronto e se del caso scontro, ma pacifico. Anne Will aveva preso posizione spiegando che la decisione se invitare Illi era dibattuta e ponderata attentamente. Si era infine deciso per il sì perché altrimenti sarebbe stata una trasmissione monca.
Non la pensa così un’avvocatessa tedesca che ha nel frattempo inoltrato un esposto alla procura contro la moderatrice e gli altri responsabili del programma. L’accusa è: aver favorito l’incitamento all’odio.
I talk show normalmente non anticipano i fatti che attirano l’attenzione, l’interesse dell’opinione pubblica. Nel caso dell’ultima puntata di Anne Will, le cose sono però andate proprio così. Nel dibattito ancora molto acceso su Illi e il niqab, si inseriva martedì un’altra notizia simile, e per molti ancora più straniante.
La stessa riguarda una studentessa 16enne, musulmana sunnita, residente in Bassa Sassonia, che da tempo si presentava a scuola, alle lezioni coperta dal niqab. Un abbigliamento (atteggiamento) nei fatti contrario alla normativa scolastica del Land. Gli insegnanti avevano ripetutamente cercato di indurla a rinunciare alla copertura totale. Tutto inutile. E così, a un certo punto, della questione si era fatto carico direttamente l’assessorato agli studi. E martedì era arrivata la decisione: la studentessa può continuare a portare il niqab. Il perché viene spiegato così: perché tratta si di caso eccezionale; perché il niqab non interferisce con il processo di integrazione; e perché si vuole evitare che la ragazza interrompa il percorso di studi.
Per i tedeschi il passato non va in prescrizione, soprattutto il loro passato. Affermazioni del tipo “Nie wieder”, “Mai più”, non sono solo propositi ormai vuotati di ogni sostanza. Nel primo articolo della Costituzione (Grundgesetz) si afferma: “La dignità dell’uomo è intoccabile”. Un precetto, un dogma che giustamente non conosce eccezioni e che è un utile faro anche in questi tempi di cambiamenti spesso turbolenti. Solo che a volte si rischia di esagerare e ottenere l’effetto opposto, come faceva notare Alexander Marguier, direttore del mensile di politica e attualità Cicero, riguardo alla studentessa con permesso di portare il niqab a scuola. Negare l’evidenza per paura di essere altrimenti additati come razzisti finisce per sortire l’effetto opposto. Spiegare che non si vieta l’uso del niqab per non mettere a repentaglio il processo di integrazione “è a dir poco un controsenso, visto che il niqab così come il burqa segnalano il rifiuto di integrazione (…) Decisioni di questo tipo alimentano incomprensioni, rabbie e paure…” e spingono alcuni elettori nelle braccia di movimenti più radicali.