Germania e Ue sono sempre più legate da un destino comune. Lo ha capito Berlino grazie alla crisi Covid-19: la sua riluttanza ad assumersi la responsabilità di leader danneggia anche l'Ue
Germania e Ue sono sempre più legate da un destino comune. Lo ha capito Berlino grazie alla crisi Covid-19: la sua riluttanza ad assumersi la responsabilità di leader danneggia anche l’Ue
Negli ultimi anni la Germania ha dovuto affrontare stravolgimenti geopolitici veloci e inaspettati. Dalla crisi dell’euro a quella dell’immigrazione, dalla Brexit all’elezione di Donald Trump. Durante il 2019, tuttavia, si era diffuso un prudente ottimismo sulla capacità di Berlino di rinnovarsi di fronte ai cambiamenti. L’arrivo della Presidenza di turno del Consiglio dell’Ue era visto come un laboratorio di prova delicato ma utile. La Storia, però, è solita avanzare a strappi. L’irrompere del cigno nerissimo della crisi sanitaria Covid-19 ha così accelerato ancora di più le mutazioni in atto e posto la Germania di fronte a scelte improrogabili. Le prime settimane della crisi Covid-19 hanno fatto credere a molti che l’Unione europea stesse vivendo la propria sconfitta definitiva. Dopo uno scontro avvelenato e insostenibile tra nord e sud dell’Unione, tuttavia, si sono aperte nuove prospettive. Ciò è avvenuto soprattutto nel momento in cui Berlino ha preso atto di quanto, oggi più che mai, il proprio destino sia legato a quello dell’Ue.
I dati attuali sul Covid-19 in Germania descrivono un approccio di contenimento molto efficace, ma dovranno essere confermati per un range di tempo abbastanza ampio (e alla prova di un calcolo incrociato e complessivo). Più il trend sarà confermato e duraturo, più la Cancelliera Merkel sarà in grado di mantenere il grande consenso riconquistato nelle ultime settimane. La parte più difficile per la Kanzlerin sarà però spiegare ai propri cittadini quello che per anni i partiti politici tedeschi non hanno avuto la forza di esprimere. Vale a dire che la solidarietà intra-europea non è per la Germania questione di scelta morale ma necessità strategicamente esistenziale. Merkel dovrà anche suggerire che le cause di tale necessità non sono solo nella geometria della filiera produttiva tedesca o nel bisogno tedesco di esportare internamente all’eurozona, ma anche nel fatto che per la Germania non esiste alcuna garanzia di democrazia al di fuori dell’Ue. Più Berlino si allontana infatti dalla capacità di tenere insieme l’Unione, più l’equilibrio istituzionale liberal-democratico tedesco diventa fragile.
Per anni nei settori tedeschi più liberisti e conservatori c’è stata la tendenza a vedere l’Unione come mezzo e non come fine e per anni la politica merkeliana è riuscita a mediare tra queste correnti e quelle più europeiste e social-liberali. La crisi europea del Covid-19, però, impone che dalla mediazione si passi ora a una sintesi capace di portare una posizione chiara di fronte ai partner europei. Posizione che, anche a causa dell’attuale impostazione tatticamente ultra-europeista francese, la Kanzlerin sembrerebbe orientata a spingere verso una maggiore integrazione Ue. Non è però ancora chiaro come e se questa operazione di Merkel sarà sufficiente, tempestiva e portatrice dell’indispensabile profondità sul lungo periodo.
Nel frattempo, tuttavia, per Berlino è sempre più certo che se in Europa ha amici scomodi che la mettono di fronte a scelte complesse, al di fuori dell’Unione non ci sono certo amici più comodi. L’idea di sviluppare una Kerneuropa mitteleuropea post-Ue a trazione tedesca è ad esempio percorribile solo a costo di drammatiche lacerazioni con il sud mediterraneo (incluso probabilmente l’alleato francese) e potrebbe anche aprire dinamiche transatlantiche molto sfavorevoli per la Germania. La scommessa economicista di potersi disinteressare il più possibile dell’Ue e scaricare maggiormente il proprio surplus commerciale sull’export verso la Cina è minata proprio dalla crisi Covid-19. Se invece la Germania guarda ad altre potenze (o aspiranti tali) extra-Ue, trova soprattutto frenemies con cui ha rapporti progressivamente deteriorati o troppo delicati da gestire autonomamente.
Pochi giorni prima che la crisi del Covid-19 si mostrasse in tutta la sua urgenza, al confine greco-turco sono giunti migliaia di profughi siriani. Una drammatica emergenza umanitaria anche frutto della decisione di Recep Erdogan di aumentare la pressione migratoria ai confini d’Europa e chiedere un nuovo round di aiuti economici all’Ue. Pessimo tempismo di Ankara, che ha prima raccolto un fronte comune dell’Unione a sostegno della dura risposta greca e poi, proprio a causa del Covid-19, ha visto spegnersi un dibattito europeo sulla questione che sarebbe altrimenti sicuramente emerso.
Quando si rivolge a Bruxelles, Erdogan parla in verità a Berlino. Il rapporto tra Germania e Turchia è storicamente speciale e preferenziale, ma vive oggi uno dei suoi momenti più difficili. Se a inizio millennio si parlava attivamente di ingresso turco in Ue, adesso i termini del dialogo sono definitivamente cambiati. Le tappe di una progressiva e reciproca estraniazione politica sono diverse: l’ambiguo fallito putsch del 2016, gli arresti arbitrari di cittadini tedeschi in Turchia e la crescente ostilità tedesca verso associazioni turche in Germania come il DITIB (considerato da molti braccio politico-religioso di Erdogan e dell’intelligence turca su territorio tedesco). La presenza di una comunità turca in Germania di circa 3 milioni di persone (di cui la metà con diritto di voto nella patria d’origine) rende il rapporto tra i due Paesi comunque inevitabile e indispensabile. Non solo: per Berlino la sponda ottomana sul Mediterraneo e sul Medio Oriente resta geopoliticamente insostituibile e necessaria, mentre per la Turchia la Germania rimane il più importante partner commerciale e investitore straniero. Ma la strategia tedesca con la Turchia è oggi priva di ulteriori ambizioni, se non quella di tenere assolutamente in piedi il dialogo diplomatico, al netto delle asprezze reciproche. È quindi molto difficile che i rapporti tra i due paesi possano migliorare senza significative evoluzioni o un regime change ad Ankara.
L’ipotesi di un forte avvicinamento tra Germania e Russia è invece elemento quasi ancestrale della geopolitica. Worst case scenario tradizionale per la strategia americana (e inglese) in Europa, la formazione di un asse eurasiatico tra Berlino e Mosca riemerge ogni volta che si parli seriamente di ‘questione tedesca’ e ogni volta che si ipotizzi un qualsiasi sganciamento tedesco dall’Ue. Il rapporto tra Germania e Russia, però, resta inevitabilmente quello dei perfetti frenemies. Un rapporto quindi condizionato da troppi traumi storici e troppi intrecci di diffidenze reciproche. I sogni euroasiatici della “creazione di una comunità economica armoniosa che vada da Lisbona a Vladivostok” (come scrisse Putin sulla Süddeutsche Zeitung nel 2010), sono svaniti con la violenza della guerra in Ucraina, che resta ancora oggi il più vivo shock geopolitico nei corridoi della politica tedesca. Preoccupata ma consapevole, la Germania sta ora continuando a scegliere una pragmatica ambivalenza nei rapporti con Mosca.
Da una parte non abbandona le sanzioni economiche contro l’economia russa, dall’altra persiste in un progetto estremamente vincolante come il Nord Stream 2 (malgrado gli avvertimenti di Washington e nonostante l’enorme diffidenza che il doppio gasdotto crea in alleati cruciali per la Germania, come Polonia, Svezia e Paesi Baltici). Contrariamente al declino anche culturale nei rapporti con la Turchia, tuttavia, i rapporti tedeschi con la Russia potrebbero modificarsi all’interno degli epocali riassetti in corso. L’evoluzione si svilupperebbe però eventualmente lungo il principale asse europeo, quello franco-tedesco. L’attuale attivismo del Presidente Macron nel voler dialogare con la Russia potrebbe infatti avere anche influenze sull’impostazione della Germania. Rimodulazione soprattutto possibile se un dialogo europeo con Mosca non verrà portato avanti da una sola impostazione francese neogollista, ma anche da una certa sospensione dell’attrito Nato-Russia di fronte allo scontro sempre più cruciale tra Usa e Cina.
Una cosa è certa: che sia per prendersi la responsabilità del proprio peso economico e politico in Ue o per avventurarsi in strade molto meno rassicuranti, la Germania non potrà mai più illudersi con il sogno di farsi semplicemente “grande Svizzera”. L’idea che a Berlino basti gestire internamente la crisi Covid-19 e puntare a una trattativa da ragioneria con i propri partner europei non è solo deleteria per l’Ue, ma anche per il futuro della stessa Berliner Republik.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di giugno/luglio di eastwest.
Negli ultimi anni la Germania ha dovuto affrontare stravolgimenti geopolitici veloci e inaspettati. Dalla crisi dell’euro a quella dell’immigrazione, dalla Brexit all’elezione di Donald Trump. Durante il 2019, tuttavia, si era diffuso un prudente ottimismo sulla capacità di Berlino di rinnovarsi di fronte ai cambiamenti. L’arrivo della Presidenza di turno del Consiglio dell’Ue era visto come un laboratorio di prova delicato ma utile. La Storia, però, è solita avanzare a strappi. L’irrompere del cigno nerissimo della crisi sanitaria Covid-19 ha così accelerato ancora di più le mutazioni in atto e posto la Germania di fronte a scelte improrogabili. Le prime settimane della crisi Covid-19 hanno fatto credere a molti che l’Unione europea stesse vivendo la propria sconfitta definitiva. Dopo uno scontro avvelenato e insostenibile tra nord e sud dell’Unione, tuttavia, si sono aperte nuove prospettive. Ciò è avvenuto soprattutto nel momento in cui Berlino ha preso atto di quanto, oggi più che mai, il proprio destino sia legato a quello dell’Ue.
I dati attuali sul Covid-19 in Germania descrivono un approccio di contenimento molto efficace, ma dovranno essere confermati per un range di tempo abbastanza ampio (e alla prova di un calcolo incrociato e complessivo). Più il trend sarà confermato e duraturo, più la Cancelliera Merkel sarà in grado di mantenere il grande consenso riconquistato nelle ultime settimane. La parte più difficile per la Kanzlerin sarà però spiegare ai propri cittadini quello che per anni i partiti politici tedeschi non hanno avuto la forza di esprimere. Vale a dire che la solidarietà intra-europea non è per la Germania questione di scelta morale ma necessità strategicamente esistenziale. Merkel dovrà anche suggerire che le cause di tale necessità non sono solo nella geometria della filiera produttiva tedesca o nel bisogno tedesco di esportare internamente all’eurozona, ma anche nel fatto che per la Germania non esiste alcuna garanzia di democrazia al di fuori dell’Ue. Più Berlino si allontana infatti dalla capacità di tenere insieme l’Unione, più l’equilibrio istituzionale liberal-democratico tedesco diventa fragile.
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