23.000 posti di lavoro in meno in Germania. Ma non ci saranno barricate o proteste di piazza. Se tutto andrà secondo i piani, la ristrutturazione avverrà nella tradizione dell’economia sociale di mercato, cioè ammortizzando le scosse e neutralizzando i conflitti.
Tutti contenti? No, non proprio tutti. A molti lavoratori temporanei dell’azienda non verrà rinnovato il contratto. I tedeschi sono decisamente indignati con i manager di Volkswagen che, nonostante i tagli e lo scandalo Dieselgate, non vogliono rinunciare ai loro bonus personali. E non è nemmeno certo che il nuovo corso produttivo sia sufficiente a far ripartire lo storico marchio.
Un patto tra management e sindacato
Per decenni, gli operai della Volkswagen sono stati visti come una delle avanguardie della socialdemocrazia tedesca: i più esemplari portatori della tradizione industriale della Mitbestimmung, la cogestione aziendale. Anche il nuovo “Patto per il Futuro”, presentato venerdì scorso dal management VW, non sarebbe potuto passare senza l’accordo con la IG Metall, il sindacato a cui è iscritto oltre il 90% dei lavoratori della casa automobilistica. L’accordo finale tra il Consiglio d’amministrazione e il Consiglio aziendale, di cui IG Metall è forza strutturale, prevede che non ci possano essere licenziamenti diretti di lavoratori VW prima del 2025.
Detto questo, entro il 2020 scompariranno 30.000 posti di lavoro, di cui 23.000 (su 280.000 dipendenti) in Germania, con lo scopo di arrivare a un risparmio di 3,7 miliardi l’anno. Come? Secondo il piano, gran parte dei tagli sarà frutto di pensionamenti, prepensionamenti e accordi di liquidazione. Al tempo stesso, però, ci saranno anche numerosi lavoratori a tempo determinato a cui, nei prossimi mesi, non verrà rinnovato il contratto. Si tratta di dipendenti che non rientrano o non vengono considerati parte del nucleo centrale dei lavoratori sindacalizzati Volkswagen. Uno scenario che interesserà principalmente gli 6 stabilimenti della Germania occidentale (Braunschweig, Kassel, Emden, Wolfsburg, Hannover, Salzgitter) e uno stabilimento in Sassonia.
Negli anni ‘90, in occasione di un’altra crisi, azienda e sindacato optarono per una riduzione delle ore di lavoro (fino a 28 settimanali). Oggi, molto più semplicemente, la generazione che non poteva ancora essere estromessa negli anni ‘90, è più vicina alla pensione.
Volkswagen si prepara così a liberarsi progressivamente di una vera e propria tipologia di dipendente e a iniziare un nuovo corso, ma lo fa con cautela, restando legata all’identità di un’azienda privata ma anche un po’ pubblica, assolutamente capitalista ma anche un po’ socializzata. Proprio per questo motivo, la sensazione dell’opinione pubblica tedesca di fronte alla ristrutturazione VW è che sia una questione completamente interna al gigante automobilistico, dove contano soprattutto gli equilibri tra management, IG Metall e politica. Quest’ultima ricopre sia un ruolo di intermediazione sia di partecipazione attiva, con lo Stato federale della Bassa Sassonia che detiene l’11% circa della casa madre Volkswagen AG e il 20% del diritto di voto nel Consiglio della società.
La competitività come parola d’ordine nazionale
Leggendo sui forum online dei giornali tedeschi e sui social media, diversi commentatori hanno sottolineato la differenza di trattamento tra i lavoratori VW fissi e quelli temporanei o esterni, ora destinati agli ammortizzatori sociali di Stato.
Un utente scrive sul forum di Heise Online, uno dei più importanti portali IT tedeschi:
“Sono già così tanti quelli che si devono barcamenare tra mini-job e lavori temporanei, quelli non protetti da alcuna lobby… Ora ne arrivano semplicemente un po’ di nuovi”.
Tantissimi altri utenti, però, ripetono che non ci sia altra soluzione al taglio del personale, per sfidare compagnie cinesi, giapponesi, francesi, americane, anche se “finiscono per pagare sempre gli stessi”. Quello della competitività sui mercati internazionali sembra essere un tema quasi scontato tra la maggioranza dei tedeschi, consapevoli che gran parte del loro benessere derivi dalla vocazione mercantilista della propria economia.
Una vocazione che Volkswagen non sembra più in grado di supportare. Secondo i dati, per 100 euro investiti da VW, c’è attualmente un guadagno di soli 1,6 euro lordi.
La risposta dell’azienda, quindi, è cambiare la strategia produttiva e la stessa produzione, puntando il più velocemente possibile su digitalizzazione, auto elettriche e auto senza pilota e andando a creare una domanda sul mercato che, fino a ora, è rimasta marginale in Europa. In questo senso, il “Patto per il Futuro” prevede l’assunzione in Germania di 9000 nuovi dipendenti. Si tratterà, ovviamente, di mansioni e profili professionali differenti da quelli attuali e, nel caso di spostamenti interni di personale, sarà necessario investire su nuovi percorsi formativi.
Sul lungo periodo, c’è chi pensa che Volkswagen coglierà l’occasione per creare un processo produttivo affidato in maniera estrema all’azione robotica. I robot lavorano 24 ore su 24, 7 giorni su 7, costano tra i 3 e i 6 euro all’ora e, soprattutto, non vogliono sedere nel Consiglio aziendale.
La rabbia contro i manager
Il piano di rilancio della Volkswagen sembra quindi essere stato accolto senza grosse contestazioni, al di là di polemiche più o meno fisiologiche.
Ma c’è qualcosa che una parte dell’opinione pubblica e la stessa politica non stanno perdonando all’azienda di Wolfsburg: la sfacciataggine del management che, nonostante difficoltà e tagli, non sembra disposto a rinunciare ai propri bonus personali.
A tutti è chiaro che l’accelerazione della crisi di profitti del colosso automobilistico sia legata a doppio filo allo scandalo Dieselgate. Sulle casse dell’azienda pesano enormemente gli oltre 15 miliardi di multe e rimborsi che VW deve pagare negli Stati Uniti, dopo che è emerso che i software per il rilevamento dell’inquinamento di molte auto erano stati consapevolmente truccati dagli ingegneri Volkswagen. Un caso che ha irrimediabilmente sfregiato la reputazione internazionale dell’industria tedesca. Il management di oggi non è quello di allora, ma c’è chi accusa il gruppo di aver fatto dei semplici rimpasti, senza aver mai davvero estromesso i dirigenti responsabili.
In questi giorni è il giornale più nazional-popolare del paese, la Bild Zeitung, ad attaccare frontalmente i privilegi dei manager VW, con diversi articoli dai tipici e vistosissimi titoli ad effetto. Dopo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, sembra che Bild voglia tornare alla propria vocazione editoriale più nota, sintonizzandosi il più possibile con la pancia del paese. Il caso VW sta diventando una delle prime occasioni per farlo.
“Volkswagen non è più l’auto (Wagen) del popolo (Volk). È un’enorme porcata come l’azienda tratta i propri clienti e lavoratori. La sola cosa importante per voi è che riceviate i vostri bonus. Nella mia vita non comprerò mai più un’auto di questo marchio”.
Scrive così un utente sulla pagina Facebook di Volkswagen, in uno dei post più in vista. Altri commenti online sono dello stesso tenore. L’indignazione di alcuni tedeschi e però più causata dal comportamento dei manager che dalla ristrutturazione del personale, più da una pessima gestione del brand che dalle politiche produttive dell’azienda.
Non solo, tanti tedeschi attaccano VW in quanto consumatori. Si sta infatti diffondendo lo scontento per le differenze di trattamento tra gli automobilisti americani e gli automobilisti tedeschi interessati dalle conseguenze del Dieselgate. Poche ore dopo l’annuncio del “Patto per il Futuro”, il CEO di Volkswagen, Matthias Müller, ha rilasciato delle infelici dichiarazioni contro gli stessi automobilisti tedeschi, facendo intendere che non ci sarebbe niente di strano se questi vengono trascurati rispetto agli americani.
Populisti? Non pervenuti
Il cosiddetto fronte della nuova destra, in altri paesi spesso presente in queste situazioni, in Germania non sembra volersi esprimere sulla ristrutturazione di Volkswagen. Pochi mesi fa, su Compact, uno dei giornali di riferimento dell’area AfD-Pegida, è stato pubblicato un intervento che criticava la presunta sudditanza del governo tedesco di fronte al severissimo trattamento inflitto dalla Giustizia americana all’azienda di Wolfsburg per il Dieselgate.
Ma, al di là di questa critica, dall’area populista non stanno ora arrivando particolari commenti. La verità è che AfD è un partito dalla scarsissima vocazione sociale, essendo nato come espressione identitaria di un movimento politico apertamente liberista in economia. E, visto che Volkswagen non sta facendo particolari operazione di outsourcing aziendale, non viene tirata in ballo nemmeno la carta del protezionismo patriottico.
Basterà?
Dal punto di vista prettamente strutturale, sembra che Volkswagen sia quindi riuscita a far passare nel paese il primo step di un piano di smantellamento del proprio storico e tradizionale assetto produttivo, pur non riuscendo a impedire che il proprio management continui a essere attaccato per la sua (ben poco scaltra) immoralità. Del resto, se per il brand ci sarà il tempo di riparare, per quanto riguarda il declino dei profitti e della competitività, il tempo rimasto è sicuramente molto meno.
C’è addirittura chi pensa che il “Patto per il Futuro” sarà insufficiente e che, magari a causa di turbolenze economiche internazionali, Volkswagen potrebbe presto essere costretta a interventi molto più traumatici e molto meno condivisi.
Se, per ora, management, sindacato e politica tedesca hanno dettato la linea del gruppo centrale Volkswagen AG, ci sono altri azionisti di rilievo che potrebbero esigere meno sensibilità sociale in futuro. Uno su tutti: il Qatar, terzo investitore di Volkswagen AG, con il 17% delle azioni. Una delle onnipresenti monarchie del Golfo, non particolarmente note per avere a cuore le condizioni di chi lavora.
@lorenzomonfreg