Da oltre 100 giorni due reporter birmani della Reuters sono in carcere per aver svelato il ruolo dell’esercito in una strage di civili. È l’unico documento giornalistico che prova il coinvolgimento dei militari di Myanmar nei massacri. Gli autori rischiano 14 anni di galera
Da più di 100 giorni due giornalisti birmani dell’agenzia Reuters, Wa Lone (31 anni) e Kyaw Soe Oo (28 anni), sono detenuti dalle autorità birmane con l’accusa di possedere «documenti segreti molto importanti riguardo lo Stato Rakhine e le forze di sicurezza». Secondo la legge vigente in Myanmar, ereditata dal periodo coloniale britannico, il due rischiano fino a 14 anni di carcere.
Ma le circostanze del loro arresto e le indagini che i due giornalisti stavano conducendo da mesi indicano che la colpa di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, agli occhi delle autorità birmane, è stata quella di svelare le responsabilità dell’esercito regolare in un massacro di civili Rohingya avvenuto lo scorso mese di settembre.
La ricostruzione dell’esecuzione di massa, pubblicata da Reuters dopo l’arresto e con il consenso dei due autori, è basata sulle testimonianze di concittadini e parenti delle vittime, compresi funzionari degli apparati di sicurezza del Myanmar, raccolte da Wa Lone e Kyaw Soe Oo.
Lo scorso due settembre, si legge su Al Jazeera, i militari birmani hanno raggiunto il villaggio di Inn Din, nello Stato Rakhine, dividendo gli abitanti tra comunità buddista e comunità musulmana. Tra i musulmani, vengono presi da parte dieci uomini Rohingya in un’età compresa tra i 17 e i 45 anni, «studenti, pescatori, allevatori e negozianti».
Abdu Shakur, padre di una delle vittime, ha dichiarato a Reuters: «Mentre li portavano via ci dicevano: non preoccupatevi. Presto vi ridaremo i vostri figli, li stiamo solo portando a un appuntamento».
Invece, riporta Bbc riprendendo l’indagine di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i militari ordinano ad alcuni abitanti di fede buddista di iniziare a scavare una fossa e i dieci Rohingya vengono ammazzati a sangue freddo uno dopo l’altro: due da compagni di villaggio buddisti, obbligati dalle forze di sicurezza, il resto dagli stessi militari.
Le foto raccolte dai due reporter di Reuters e pubblicate in calce agli articoli indicati sopra, mostrano prima i dieci uomini inginocchiati, circondati da altri uomini armati; poi, nella fossa comune, i loro dieci corpi riversi in una pozza di sangue.
Lo scorso 12 dicembre Wa Lone e Kyaw Soe Oo, quando ancora in libertà stavano proseguendo le indagini intorno al massacro di Inn Din, vengono invitati a un appuntamento in un ristorante da «due poliziotti che non avevano mai visto prima». I due agenti consegnano loro un plico di documenti e, secondo le dichiarazioni dei due giornalisti, immediatamente vengono arrestati e condotti in carcere.
Nel frattempo, raccontano i parenti di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, la polizia raggiunge le abitazioni delle famiglie dei due e, senza mandato, perquisisce entrambe le case e requisisce laptop, memorie esterne e taccuini. I rappresentanti delle forze dell’ordine, contraddicendo le famiglie dei due imputati in sede processuale, dichiareranno di aver debitamente mostrato il mandato di perquisizione.
Mercoledì 21 marzo Wa Lone e Kyaw Soe Oo si sono presentati in tribunale per l’undicesima udienza di un caso che li vede in carcere già da più di 100 giorni «solo per aver fatto il proprio lavoro di giornalisti», parafrasando il presidente e direttore di Reuters Stephen J. Adler.
In seguito all’arresto dei due, infatti, le autorità birmane hanno rilasciato una rarissima ammissione di colpa, aprendo un’indagine interna per appurare le responsabilità delle esecuzioni extragiudiziali del villaggio di Inn Din.
Secondo l’esercito birmano , però, i quattro soldati colpevoli degli omicidi «hanno aiutato gli abitanti del villaggio a portare a termine un attacco per vendicarsi dei terroristi bengalesi», parafrasi dispregiativa sistematicamente utilizzata dal governo del Myanmar per indicare gli appartenenti alla comunità Rohingya.
Le testimonianze raccolte da Wa Lone e Kyaw Soe Oo contraddicono la versione dei militari, negando che le dieci vittime abbiano avuto alcun collegamento con organizzazioni terroristiche.
Il lavoro dei due giornalisti di Reuters è ad oggi l’unico documento giornalistico in grado di provare inconfutabilmente le responsabilità degli apparati di sicurezza birmani nelle atrocità commesse contro la popolazione Rohingya. Le autorità birmane, sin dall’esplosione delle violenze dello scorso mese di agosto, hanno sistematicamente negato l’accesso allo Stato Rakhine alla stampa internazionale.
L’arresto di Wa Lone e Kyaw Soe Oo ha sollevato l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale, evidenziando il macroscopico problema di rispetto dei diritti umani che ancora affligge un Myanmar impegnato, formalmente, in una storica transizione democratica.
Durante l’ultima udienza del caso numerosi membri delle ambasciate internazionali con sede nel Myanmar si sono presentati in aula per seguire gli sviluppi e continuare le pressioni diplomatiche per il rilascio dei due giornalisti.
Tra loro spicca la dichiarazione dell’ambasciata danese, che ha mandato un proprio funzionario ad assistere a ognuna delle 11 udienze: «I due giornalisti sono dietro le sbarre da 100 giorni solo per aver garantito il diritto all’informazione dell’opinione pubblica».
La prossima udienza è fissata per il 28 marzo.
@majunteo
Da oltre 100 giorni due reporter birmani della Reuters sono in carcere per aver svelato il ruolo dell’esercito in una strage di civili. È l’unico documento giornalistico che prova il coinvolgimento dei militari di Myanmar nei massacri. Gli autori rischiano 14 anni di galera