È tornata la paura in Thailandia. Undici esplosioni hanno colpito cinque differenti province del sud del Paese. In totale, secondo quanto riferiscono le autorità, questi attacchi hanno causato la morte di quattro persone e il ferimento di altre trenta. Tra quest’ultimi, anche due cittadini italiani.
La giunta militare accusa l’opposizione
La polizia thailandese, che ha riferito di aver condotto alcuni arresti in relazione alle esplosioni, ha sostanzialmente escluso la pista del terrorismo internazionale. «È sabotaggio locale limitato ad alcune aree e province», si è affrettato subito a dire Piyapan Pingmuang, portavoce della polizia nazionale thailandese. Il responsabile ha anche aggiunto che le autorità erano state informate dall’intelligence di imminenti attacchi, ma non avevano indicazioni precise su quando e dove sarebbero potuti avvenire.
Le esplosioni arrivano a meno di una settimana dal referendum che ha approvato la nuova Costituzione di ispirazione militare – aspramente criticata – e alla vigilia dell’84esimo compleanno della regina Sirikit. Proprio per questo, secondo Prayuth Chan-Ocha – capo del governo dopo l’ennesimo colpo di stato del maggio 2014 – gli attentati sono da attribuire all’opposizione che «vuole destabilizzare il Paese nel momento in cui la situazione sta migliorando».
L’estremismo islamico in Thailandia
Gli attacchi, però, non sono stati rivendicati e, per questo, non è possibile escludere nessuna ipotesi. Tra queste c’è anche la pista dei guerriglieri separatisti musulmani che operano nelle tre province meridionali al confine con la Malesia. Le numerose azioni messe a segno dalle cellule radicali, che dal 2004 ad oggi hanno causato la morte di quasi settemila persone, non hanno mai interessato le zone turistiche. Se gli attacchi fossero opera loro, significherebbe un preoccupante cambiamento di tattica operativa. In questo contesto, va sottolineato anche che, come avevamo scritto in precedenza nelle pagine di East, le trattative di pace tra alcuni gruppi armati e il governo di Bangkok sono state bruscamente interrotte nel maggio scorso.
Queste organizzazioni musulmane non sembrano avere collegamenti con i tagliagole dello Stato Islamico, ma non è da escludere che nell’ultimo periodo siano stabiliti dei contatti. Non è certo un mistero che il sud est asiatico rientri a pieno titolo nelle mire dei terroristi e, con esso, anche la Thailandia può costituire un obiettivo. Nel dicembre scorso, i servizi segreti di Mosca avevano riferito ai loro omologhi thailandesi che almeno dieci jihadisti siriani erano entrati nel Paese allo scopo di compiere attentati. Nell’informativa si leggeva che due di loro si trovavano proprio a Phuket, uno dei luoghi colpiti dalle esplosioni di queste ore.
Il pericolo attentati nel sud est asiatico
Negli ultimi anni, soprattutto il Bangladesh, le Filippine, l’Indonesia e la Malesia, oltre a essere stati utilizzati come zone di transito da centinaia di miliziani per raggiungere i tagliagole del Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi in Siria ed Iraq, sono diventati terreno fertile per l’ideologia estremista. Complice anche la povertà e la mancanza di prospettive future in quest’area dell’Asia, molti gruppi hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico e gli attacchi terroristici, che sono notevolmente aumentati, potrebbero ripetersi in qualsiasi momento.
Bangladesh conteso tra al Qaeda e Stato Islamico
Nel Bangladesh ancora sconvolto dall’attacco di luglio al ristorante Holey Artisan Bakery nel quartiere diplomatico di Dacca, in cui i terroristi hanno ucciso decine di persone, compresi diversi nostri connazionali, la situazione è molto complessa. Il Paese, uno dei primi al mondo per presenza di musulmani e dove l’Islam è religione di stato, è ambito sia dai seguaci di al Qaeda e sia da quelli dell’ISIS. Nel settembre del 2014 il leader Ayman al-Zawahiri, vista la diminuzione di influenza dell’organizzazione in Medio Oriente, ha annunciato la formazione al Qaeda nel Subcontinente Indiano, frutto di «due anni di lavoro di reclutamento e dell’unione di tutti i gruppi jihadisti della regione». La base operativa è proprio in Bangladesh. Allo stesso tempo anche lo Stato Islamico ha scelto il Paese come appoggio strategico per espandersi in tutta l’Asia. E il risultato è drammatico. I gruppi, anche con l’obiettivo di aumentare il proprio consenso con quella parte di estremismo ancora indeciso su quale strada scegliere, hanno rivendicato l’uccisione di più di settanta persone negli ultimi diciannove mesi.
Padre Franco Cagnasso, in un articolo del novembre 2014 pubblicato sul mensile Mondo e Missione, spiegava che «l’idea di califfato islamico in Bangladesh è attraente agli occhi di molti». A questo, sempre secondo il missionario italiano che vive nel Paese, va aggiunto «il fatto che in Bangladesh esiste un sottobosco, al di sotto di una tradizione di Islam tollerante, composto da giovani formati nelle madrasse, le scuole islamiche di matrice araba, che hanno una visione non molto tollerante». E gli islamisti hanno sfruttato al meglio la situazione. Da una parte hanno costruito ospedali e centri di formazione per indottrinare la popolazione più povera e ignorante. Ma dall’altra, come testimoniano le recenti operazioni dell’antiterrorismo, hanno anche cercato – riuscendoci – di infiltrarsi in quella più benestante e colta, arruolando tra le loro fila persone ben inserite nella società.
L’Isis avanza anche nelle Filippine
Nella regione a maggioranza musulmana nel sud del Paese, dove gran parte della popolazione richiede l’autonomia, l’ideologia dei jihadisti sta prendendo sempre più piede. E nell’ultimo periodo sono stati diversi i gruppi armati islamici hanno giurato fedeltà al Califfo. Uno dei più attivi è Abu Sayyaf, fondato alla fine degli anni ottanta da Abdurajik Janjalani, ha come scopo quello di creare uno stato islamico indipendente basato sulla legge della sharia nella regione del Mindanao. Autore di numerosi rapimenti, compreso quello dell’ex missionario italiani Rolando Del Torchio rilasciato dopo sei mesi di difficilissima prigionia – ed uccisioni, ha stretti legami anche con Jemaah Islamiyah, un’organizzazione panasiatica fondata nei primi anni novanta. I membri di Abu Sayyaf sono il principale obiettivo dell’esercito filippino che, anche in questi giorni, è impegnato in duri combattimenti con i miliziani.
Altri gruppi meno conosciuti ma altrettanto pericolosi, sono Katibat Ansar al Sharia, Katibat Marakah Al Ansar e Ansar Khalifah Philippines. Quest’ultima ha recentemente diffuso un video sui social dove minaccia azioni kamikaze in tutte le Filippine. Sempre su internet, alla fine del 2015, sono apparse delle immagini in cui veniva mostrato un campo di addestramento dei jihadisti nascosto nella jungla del Mindanao.
Dall’Indonesia e dalla Malesia sono partiti – e rientrati – centinaia di miliziani
A fine luglio il governo indonesiano ha assestato un duro colpo agli estremisti del Paese, uccidendo Santoso, il terrorista più ricercato dalle autorità locali. Leader di East Indonesia Mujahidin (MIT), era stato il primo a giurare fedeltà ai tagliagole dello Stato Islamico. Purtroppo però, la morte del super ricercato, pur essendo un grande successo per le forze di sicurezza, molto probabilmente non fermerà l’avanzata dei gruppi radicali armati. L’analista Sidney Jones, dell’Istituto di analisi politica dei conflitti di Giacarta, sulle pagine del quotidiano francese Le Monde, subito dopo la conferma dell’uccisione di Santoso, spiegava che la morte del jihadista non basterà a fermare l’ondata di violenza nel Paese, perché «il pericolo è legato a varie cellule ben radicate nelle città».
A questo va aggiunto che, secondo i servizi di sicurezza dell’Indonesia e della Malesia, nell’ultimo periodo sono rientrati nei due Paesi di origine centinaia di combattenti che si erano arruolati nelle file dell’ISIS in Siria ed Iraq. Proprio per questo, considerato anche l’attacco che il 14 gennaio scorso ha provocato la morte di quattro persone nel centro di Giacarta, il rischio di nuove violenze è tutt’altro che scongiurato.
È tornata la paura in Thailandia. Undici esplosioni hanno colpito cinque differenti province del sud del Paese. In totale, secondo quanto riferiscono le autorità, questi attacchi hanno causato la morte di quattro persone e il ferimento di altre trenta. Tra quest’ultimi, anche due cittadini italiani.
La polizia thailandese, che ha riferito di aver condotto alcuni arresti in relazione alle esplosioni, ha sostanzialmente escluso la pista del terrorismo internazionale. «È sabotaggio locale limitato ad alcune aree e province», si è affrettato subito a dire Piyapan Pingmuang, portavoce della polizia nazionale thailandese. Il responsabile ha anche aggiunto che le autorità erano state informate dall’intelligence di imminenti attacchi, ma non avevano indicazioni precise su quando e dove sarebbero potuti avvenire.