I ghiacci sempre più sottili hanno reso accessibile, in questa enorme isola quasi deserta, una preziosa e abbondante concentrazione di materie prime, incluse terre rare
I ghiacci sempre più sottili hanno reso accessibile, in questa enorme isola quasi deserta, una preziosa e abbondante concentrazione di materie prime, incluse terre rare
C’è un posto nel mondo di cui non si parla quasi mai. Eppure è di là che passerà buona parte della geopolitica dei prossimi anni. Stiamo parlando della Groenlandia, isola enorme e quasi deserta (56mila persone per una superficie di quasi dieci volte l’Italia) ricchissima di materie prime, quasi completamente ricoperta da ghiacci in via di rapido (e, a questo punto, difficilmente reversibile) scioglimento. È lì, verso quel lembo di terra fredda e piena di neve e ghiaccio, che per anni è stato nelle mappe solo di esploratori e scienziati, che ora punta la barra del timone della politica, dell’economia, degli interessi militari delle più importanti potenze del mondo: la Russia, candidata a essere egemone nella rotta nautica dell’Artico che si aprirà da qui a pochi anni, gli Stati Uniti che lì hanno basi militari, la Cina che punta a essere riconosciuta come Paese Artico ponendo nell’area le basi di enormi impianti minerari.
Proprio la ricchezza di materie prime, che i ghiacci sempre più sottili stanno rendendo accessibili, è il punto cruciale di tanto inconsueto interesse. Lì sotto, infatti, ci sono enormi giacimenti di gas e petrolio, ma anche di zinco, uranio, oro, diamanti. E soprattutto di preziosissime (e controversissime) terre rare, ossia un mix di 17 elementi che, a dispetto del nome, non sono poi così rare, ma sono solo estremamente difficili da estrarre; le terre rare sono e saranno sempre più alla base dello sviluppo green del mondo, perché indispensabili per costruire pannelli solari, pale eoliche, batterie, ma anche smartphone, monitor, computer. Il problema delle terre rare però è che, se da un lato sono strumento indispensabile alla transizione verde del mondo, dall’altro richiedono una specie di patto con il diavolo i cui termini potremmo riassumere un po’ brutalmente con ‘inquinare oggi per smettere di inquinare in futuro’. Questo perché, ad oggi, estrarre le terre tare è un’operazione molto difficile che non solo richiede enorme dispendio di acqua ma che ha anche un incalcolabile e devastante effetto sull’ambiente.
Il nazionalismo anti danese
In questo quadro complesso, che impone scelte radicali che paiono essere perdenti in ogni caso, si inserisce il fatto che il ricchissimo campo di Kvanefjeld (forse il secondo, o addirittura il più grande, giacimento al mondo di terre rare) si trova sulla punta meridionale della Groenlandia, ossia in uno dei luoghi più incontaminati e fragili della Terra. Una condizione, questa della fragilità e della assoluta peculiarità ambientale della Groenlandia che, in teoria, avrebbe dovuto rendere irricevibile la proposta di un’enorme miniera a cielo aperto fatta dall’azienda australiana (ma di cui è azionista di maggioranza la cinese Shenghe Resources Holding) Greenland Minerals and Energy, che del campo di Kvanefjeld è proprietaria, ma che al contrario, per lungo tempo (almeno dal 2015, quando l’iter è iniziato) non è parsa sufficiente a dire no.
La ragione per cui la proposta sino-australiana è stata per anni sul punto di essere accettata dai groenlandesi è che l’isola aspira a guadagnare, dallo sfruttamento di Kvanefjeld, un surplus di imposte sufficiente ad avviare il processo, cui gli inuit aspirano da anni, di uscita dell’isola dal regno di Danimarca. La volontà nazionalista inuit di una Greenxit è l’esito di profondi e mai sopiti rancori degli abitanti dell’isola verso Copenaghen, che neppure il regime molto lasco di contea autonoma (con un Parlamento, un premier e mani molto libere) è mai riuscito a sopire. Gli inuit, da tempo, cercano di allontanarsi da Copenaghen convinti del fatto che la Danimarca, dalla Groenlandia, abbia preso più di quanto abbia voluto o saputo restituire. In particolare gli inuit attribuiscono alla madrepatria danese la colpa di averli sradicati scambiando le loro antichissime tradizioni, fatte di case scavate nella neve, caccia e pesca, con la routine di una borghesia operaia posticcia e alienante.
Questo perché, dagli anni ’60 del secolo scorso, gli imprenditori danesi hanno preso a costruire enormi fabbriche di trasformazione del pesce sulle coste groenlandesi, impiegandovi, come operai, gli sradicati inuit. Un paio di generazioni più tardi, però, i figli di quei cacciatori diventati operai si ritrovano privi delle loro radici, ormai perdute per sempre, e privi di futuro e lavoro, perché il lavoro nelle fabbriche di pesce non esiste più, e soprattutto, privi di un ruolo e un posto nel mondo, preda di alcol, obesità (gli organismi inuit, dopo millenni di dieta a base di pesce e freddo stanno faticando ad abituarsi a stanze calde e zuccheri) e depressione (la Groenlandia è la regione con il più alto tasso di suicidi al mondo). Per questo, da anni, sull’isola, ha preso a serpeggiare un poco silenzioso nazionalismo inuit anti danese. Eppure, in un gioco di specchi, è sempre per questo che le istanze di indipendenza groenlandesi non sono mai andate davvero da nessuna parte: perché la Groenlandia, oggi, ha enormi problemi di welfare, e per tenere in piedi i suoi ospedali e centri di assistenza, non può che reggersi sui circa 500 milioni di euro che ogni anno arrivano da Copenaghen a sostegno del suo bilancio.
La questione delle terre rare
In questo quadro misto, fatto di volontà di indipendenza e di fragilità sociale, si sono inseriti di recente gli elementi cruciali dello scioglimento dei ghiacci e dell’interesse del mondo per le materie prime di cui la Groenlandia è ricca. Così, il precedente Governo, guidato (come ogni Governo tranne uno, dagli anni ’70) dal Partito socialdemocratico Siumut, ha pensato di poter scambiare la sua emancipazione dalla Danimarca con il permesso di estrazione nei campi di terre rare.
Poteva essere la quadratura del cerchio. Ma le cose, neppure in un Paese di 56mila abitanti sono facili. Anzi. Proprio la diatriba sull’autorizzazione definitiva alla miniera di Kvanefjeld ha fatto cadere il Governo e ha portato l’isola a elezioni anticipate quanto mai polarizzate e polarizzanti: qua, il partito Siumut, socialdemocratico e in pratica plenipotenziario dell’isola da decenni, nazionalista e deciso a dare luce verde al progetto sino-australiano. Di là, la lista inuit, nazionalista sì, ma anche ambientalista e decisa a non transigere sullo sfruttamento del campo di Kvanefjeld, ritenuto troppo inquinante e, poiché ricco anche di uranio, troppo pericoloso. Una posizione condivisa da molti, da quelle parti, perché se a un popolo che negli anni ha perso tutto, incluso il ghiaccio, l’unica cosa che rimane è terra, c’è caso che voglia provare a difenderla; c’è caso che non intenda riprenderla ai danesi per subaffittarla, di nuovo, a un popolo lontano e vorace, si tratti degli americani, che ai tempi di Trump avevano fatto strampalate offerte di acquisto, o dei cinesi che vogliono replicare lì la forma di neocolonialismo applicata in Africa: sfruttamento in cambio di denaro e infrastrutture.
Così, su queste basi profondamente divisive si è arrivati al voto di poche settimane fa che ha, almeno per ora, messo in pausa la questione con una vittoria schiacciante della lista inuit che si opponeva alla miniera e che ha preso il 37% dei voti, ossia 12 seggi su 31. Un voto che, a ben guardare, per dimensioni, assomiglia a quello per l’elezione del consiglio comunale di una piccola città, ma che, tra le varie cose, ha provocato anche un terremoto sulle borse del mondo, facendo crollare in poche ore del 44% il valore delle azioni di un colosso come la Greenland Mineral. Perché, come dicevamo, presto molti, se non tutti, gli interessi del mondo, passeranno dalla Groenlandia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
I ghiacci sempre più sottili hanno reso accessibile, in questa enorme isola quasi deserta, una preziosa e abbondante concentrazione di materie prime, incluse terre rare
C’è un posto nel mondo di cui non si parla quasi mai. Eppure è di là che passerà buona parte della geopolitica dei prossimi anni. Stiamo parlando della Groenlandia, isola enorme e quasi deserta (56mila persone per una superficie di quasi dieci volte l’Italia) ricchissima di materie prime, quasi completamente ricoperta da ghiacci in via di rapido (e, a questo punto, difficilmente reversibile) scioglimento. È lì, verso quel lembo di terra fredda e piena di neve e ghiaccio, che per anni è stato nelle mappe solo di esploratori e scienziati, che ora punta la barra del timone della politica, dell’economia, degli interessi militari delle più importanti potenze del mondo: la Russia, candidata a essere egemone nella rotta nautica dell’Artico che si aprirà da qui a pochi anni, gli Stati Uniti che lì hanno basi militari, la Cina che punta a essere riconosciuta come Paese Artico ponendo nell’area le basi di enormi impianti minerari.
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