Dopo oltre undici mesi di violenze sono morte migliaia di persone, almeno due milioni sono fuggite e più di cinque milioni hanno urgente bisogno di aiuti alimentari. L’Onu avverte di una imminente carestia “senza precedenti”
La crisi nella regione etiope del Tigrè continua a deteriorarsi mentre continuano i combattimenti tra le truppe governative, appoggiate dai miliziani della vicina Eritrea, e il Fronte di liberazione popolare del Tigrè (TPLF). Dopo oltre undici mesi di violenze sono morte migliaia di persone, almeno due milioni sono fuggite dalle loro abitazioni e più di cinque milioni di persone, equivalenti al 90% della popolazione, hanno urgente bisogno di assistenza, soprattutto di aiuti alimentari (tasso di malnutrizione superiore al 22%). Purtroppo, le organizzazioni umanitarie impegnate sul campo, non sono in grado di raggiungere questa moltitudine umana.
Uno scenario a dir poco inquietante, che ha indotto il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, Martin Griffiths, ad affermare che “la crisi nella regione dell’Etiopia rappresenta una macchia sulla nostra coscienza”.
In un’intervista rilasciata all’Associated Press, il capo delle azioni umanitarie dell’Onu ha spiegato che “molti abitanti del Tigrè sono costretti ad alimentarsi con radici, fiori e piante invece di aver assicurato un pasto normale”. Un’emergenza che secondo Griffiths richiama alla mente la tremenda carestia che negli anni ottanta uccise oltre un milione di persone in Etiopia.
Per questo ha chiesto al Governo etiope di condurre il Paese lontano dall’“abisso in cui sta precipitando” e lo ha accusato di aver messo in atto un blocco, che limita di fatto al 10% la distribuzione degli aiuti e dei medicinali destinati alla popolazione del Tigrè.
In risposta, il Governo sta accusando l’organismo internazionale di “ingerenza” nei suoi affari interni e ha ordinato l’espulsione di sette alti funzionari delle Nazioni Unite. Tra questi c’è il responsabile nazionale del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), il capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) e un alto funzionario dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR), che stava conducendo un’indagine congiunta con la Commissione per i diritti umani nominata dal Parlamento etiope sulle denunce di uccisioni di massa, stupri di gruppo e altri abusi perpetrati nel Tigrè.
Lo scorso 13 settembre, a Ginevra, l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, aveva rivelato che per ragioni di sicurezza gli esperti non hanno potuto visitare il Tigrè orientale e centrale. Quindi la commissione congiunta non si è recata ad Axum, Idaga Hamus, Adigrat, Mahbere Dego, Debre Abbay e diversi altri centri dove, stando alle organizzazioni umanitarie e alle testimonianze raccolte dai media internazionali, sono stati commessi i crimini di guerra peggiori dalle forze etiopi ed eritree. Nel frattempo, la pubblicazione del rapporto sul Tigrè è stata posticipata al primo novembre, ma il lavoro si preannuncia largamente incompleto.
In precedenza, le autorità etiopi avevano accusato gli operatori umanitari di favorire e persino di armare le forze del Tigrè, sebbene non abbiano mai fornito prove a sostegno delle loro accuse.
L’ostilità del Governo di Abiy Ahmed nei confronti delle agenzie umanitarie presenti in Etiopia è andata crescendo di pari passo con le denunce contenute nei loro report sulla severità della crisi nel Tigrè. Senza dimenticare, che dall’inizio delle ostilità sono stati uccisi almeno una dozzina di operatori umanitari, tre dei quali lo scorso giugno, appartenenti a Medici senza frontiere (Msf). Il grave accaduto ha costretto la nota Ong a ritirarsi da alcune aree della regione.
In quest’ottica, la decisione di espellere i funzionari del Palazzo di vetro risponde alla necessità di silenziare il loro dissenso nei confronti delle scelte politiche di Addis Abeba, riguardo la gestione della crisi.
Sebbene la guerra nel Tigrè adesso rappresenti la più evidente fonte di violazioni dei diritti umani in Etiopia, non è purtroppo l’unica. Altre zone del Paese africano, in particolare le regioni dell’Oromia occidentale, dell’Amhara e del Benishangul-Gumuz, le aree lungo i confini delle regioni Oromia-Somalo e Afar-Somalo, e l’Etiopia meridionale, sono interessate da violenti conflitti e abusi sulle popolazioni locali.
È infine importante ricordare che Addis Abeba è al centro degli affari e della diplomazia dell’Africa. Proprio nella capitale etiope hanno sede gli uffici di molti enti di coordinamento e degli organismi umanitari e decisionali pan-africani.
Una guerra di lunga durata in Etiopia, oltre a influenzare negativamente le capacità di risposta strategica dell’intero continente, screditerà anche l’iniziativa “Silencing the Guns” (Mettiamo a tacere le armi), lanciata dall’Unione africana per porre fine a tutte le guerre, i conflitti civili, la violenza di genere, i conflitti violenti e prevenire i genocidi nel continente entro il 2020.
Quando, all’inizio dello scorso novembre, il Primo Ministro Abiy Ahmed diede inizio alle operazioni militari aveva promesso un rapido conflitto per ripristinare il controllo del Governo centrale, dopo gli attacchi ai campi dell’esercito federale da parte del TPLF.
Poi, il 28 novembre il premier etiope, annunciò l’ingresso dell’esercito federale nella capitale dello stato settentrionale, Macallè, tuttavia, alla fine di giugno, i ribelli che sostengono il TPLF hanno ripreso la città e gran parte della regione, costringendo le truppe governative a ritirarsi. Le forze tigrine si sono poi spinte nelle regioni limitrofe di Afar e Amhara, costringendo centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case.
In un simile contesto, l’Unione africana, le Nazioni Unite e le potenze internazionali dovrebbero aumentare i loro sforzi per portare Abiy al tavolo dei negoziati. Perché se non sarà possibile avviare un dialogo costruttivo tra le parti, le conseguenze per l’Etiopia e l’intera Africa potrebbero essere assai gravi.
Uno scenario a dir poco inquietante, che ha indotto il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, Martin Griffiths, ad affermare che “la crisi nella regione dell’Etiopia rappresenta una macchia sulla nostra coscienza”.