“E’ arrivato il momento che i siriani tornino a casa loro, il Libano si deve occupare dei libanesi”, le parole pronunciate durante la messa di Natale dal patriarca maronita di fronte al Presidente della Repubblica Michel Aoun contengono una paura, un’idea e una domanda: e se i siriani diventassero come i palestinesi, stabilmente presenti in Libano dalla cacciata del 1948?
La guerra in Siria si protrae da 5 anni, a breve entreremo nel sesto anno di conflitto. Il timore, neanche troppo sottaciuto, è che il conflitto civile possa trasformarsi gradualmente, con la perdita di un fronte, in una guerra di logoramento su scala nazionale. La Siria come l’Afganistan, la Russia come l’Unione Sovietica: il controllo delle cinque maggiori città non è una garanzia sufficiente ad una pacificazione della nazione. I “se” sono d’obbligo ed il primo interrogativo è relativo all’atteggiamento futuro di Assad. Qualora il Presidente alawita completasse l’opera di controllo dell’Ovest del paese, quale comportamento adotterebbe in politica interna? Un paese pacificato attraverso la paura e le armi, è un paese estraneo al rischio di guerra continua? Quali potrebbero essere le conseguenze per i milioni di rifugiati siriani? La restaurazione dello status quo precedente, dopo anni di conflitto e dopo una primavera araba, è una strada che presenta numerose incognite. La possibilità di un conflitto parcellizzato sono alte e i pericoli per Assad potrebbero giungere anche dal Libano.
Il milione e mezzo di siriani in Libano fuggiti dalle bombe e dalle torture vedono nel Presidente Alawita il principale responsabile dell’alone di morte che si è steso sul paese. I rifugiati non torneranno a casa, o almeno non tutti. La minaccia di repressioni e di giustizia sommaria, oltre che la distruzione delle abitazioni, sono elementi più che sufficienti a far desistere questo esercito di fantasmi senza diritti. Il bivio di Assad può portare quindi conseguenze anche ai suoi vicini. Il Libano è abituato a eserciti invasori e forze di pace internazionali: nella sua storia israeliani, americani, francesi, italiani e inglesi hanno sfilato tra le vie di Beirut. I palestinesi ci insegnano però che il paese dei cedri non è capace di digerire la componente umana. L’atteggiamento del governo libanese è sempre stato particolarmente duro nei confronti dei profughi, alimentando così i contrasti sociali al suo interno. La reale difficoltà di gestione delle emergenze è stata spesso accompagnata dalla cecità di non riconoscere i fondamentali diritti civili ai rifugiati. La corda rimane tesa. Inscatolare oltre un milione e mezzo di persone nel limbo della sopravvivenza potrebbe avere conseguenze incontrollabili. Ad ora il sistema libanese si integra con i profughi grazie a due colonne: la prima è connessa all’attività dell’UNHCR che finanzia spese mediche e tutele di diverso grado sociale; l’altra al sistema del debito con cui tutti i rifugiati scendono a patti. Un esempio tipico di questo nodo scorsoio è legato ai servizi sanitari. L’UNHCR garantisce infatti la sovvenzione di una percentuale, che va dal 75% al 90% a seconda dei trattamenti ospedalieri, mentre il resto ricade sui vuoti portafogli dei profughi. Il debito si accumula, ad ora il gioco conviene, ma qualora la maggioranza divenisse insolvente, la porta della sanità potrebbe sprangarsi lasciando un milione e mezzo di persone alla mercé del destino.
Il discorso del patriarca maronita nasconde una paura neanche troppo velata. Il Libano è già stato testimone di un’evoluzione simile in passato. Gli sciiti della Bekka e del Sud, grazie all’aiuto di Teheran, si trasformarono velocemente in una forza militare capace di contrastare l’invasione israeliana e il debole potere cristiano di Beirut. Iran o Arabia Saudita, i partner internazionali si trovano sempre e il rischio che la rivoluzione siriana si possa evolvere nel contesto libanese è tutt’altro che infondato. Il dubitativo rimane d’obbligo e i parallelismi trovano comunque punti di profondo contrasto: l’OLP all’inizio della sua permanenza libanese era già armata e appoggiata dall’esterno, un’altra fotografia rispetto al caso siriano. Tuttavia non è possibile tralasciare un dato fondamentale, metà del milione e mezzo di profughi, stando ai numeri dell’UNHCR, è costituito da under 18. Una generazione perduta, una generazione con un tasso di scolarizzazione in caduta libera e una prospettiva di lavoro/mobilità sociale inesistente. La rabbia, il malcontento e la consapevolezza di non avere più una patria sono sentimenti pericolosi e facilmente manipolabili.
Tesi e antitesi si scontrano nella melma libanese, il ruolo di Hezbollah rappresenta una delle incognite più grandi. Le contraddizioni del Partito di Dio sono sempre più evidenti: da una parte fiero oppositore di Israele e movimento anti establishment, dall’altra forza regionale con profonde radici nella politica nazionale. Qual è la sua reale forza? Quale l’appoggio di cui gode dalla società civile? Nasrallah, durante un recente intervento televisivo, ha dichiarato che Hezbollah rimarrà in Siria indefinitamente. Dichiarazioni che fanno sorgere seri dubbi sulle reali capacità dell’esercito regolare siriano nel quotidiano controllo del territorio. L’esigenza di Assad sembra quindi quella di mantenere una presenza militare straniera in Siria per garantire sicurezza e ordine. La sovranità è attaccata alla flebo di Russia e Iran. Il lavoro di Mosca con i paesi confinanti, ed in netto contrasto con Assad, è stato fondamentale. La Giordania, accusata numerose volte dal Presidente Alawita di finanziare gruppi ribelli nel Sud, ha bloccato qualsiasi operazione, mentre la Turchia si è felicemente riposizionata sotto l’ala protettrice di Putin, troncando i complicati rapporti di democrazia e rispetto dei diritti civili con l’Occidente. Con l’Iraq impegnato nella riconquista di Mosul e i curdi concentrati sull’operazione “Raqqa”, la sottile tela tessuta dalla Russia ha toccato perfino Gerusalemme. Il patto con Netanyahu è semplice: nessuna rimostranza nell’occupazione dei territori palestinesi più una garanzia di sicurezza su attacchi in Galilea, in cambio di un silenzioso assenso aIle operazioni di Damasco. Il lavoro diplomatico di Mosca ha reso la strada verso Aleppo una piacevole discesa.
Ma la Siria non è una singola città e i dissidi potrebbero facilmente riaccendersi. Sei anni di guerra civile, una forza militare sproporzionata e un contesto favorevole non sono bastati a piegare la resistenza. Riad rimane alla finestra, attenta a percepire ogni segnale di debolezza. I rifugiati siriani in Libano, senza un piano di lungo termine basato sull’assistenza e la progressiva integrazione, rischiano di divenire carne da macello per un futuro conflitto. L’unico capace di porre fine al circolo vizioso è lo stesso Assad. Qualora il Presidente siriano decidesse di scendere a patti con le frange più moderate della resistenza, il conflitto potrebbe finalmente vedere una fine, ma i segnali provenienti da Damasco sembrano smentire questa ipotesi. Le ultime dichiarazioni del leader alawita fotografano la volontà di mantenere la rotta inalterata. La guerra civile, come l’abbiamo conosciuta fino ad adesso, potrebbe quindi terminare presto, ma la spirale di violenza è ben lontana dal concludersi.
Ad ora i rifugiati siriani in Libano sono un silenzioso esercito di senza diritti, ma le decisioni del presente potrebbero generare conseguenze pericolose nel prossimo futuro.