Dopo il risultato delle consultazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 30 agosto scorso, l’audizione dell’inviato speciale Ismail Ould Cheikh Ahmed, una tregua di 72 ore a fine ottobre e il rifiuto della road map verso la risoluzione del conflitto da parte sia dei lealisti che dei ribelli, il conflitto in Yemen è giunto a un nulla di fatto.
Attacchi suicidi, scontri di terra e bombardamenti imperversano ancora, esattamente come un anno e mezzo fa, dall’inizio della guerra nel marzo 2015. L’escalation del conflitto, ormai, è tale che è anche difficile tenere il conto di ogni violazione sia della tregua che della Convenzione di Ginevra, dall’una e dall’altra parte e, soprattutto, è difficile star dietro al bollettino degli esiti mortali dei bombardamenti del GCC. Il 31 agosto 2016, 16 membri di una stessa famiglia della provincia di Saada, ben conosciuta per il suo grado sociale e la discendenza dal vecchio imamato, sono stati uccisi da un raid del GCC che ha polverizzato la loro abitazione. La casa dell’imam Saleh Abu Zainah, ucciso anche lui nell’attacco, è stata rasa al suolo al mattino presto. La composizione tradizionale della casa, realizzata nel particolare impasto di fango e malta dell’architettura locale, unica al mondo, ha reso molto più complessi i soccorsi e l’estrazione dei corpi tra le macerie. Un episodio che appare minimale sia se confrontato con il bombardamento dell’ospedale MSF di Abs, nella provincia di Saada in cui 11 persone sono morte e 19 pazienti sono rimasti feriti; sia se visto alla luce del bombardamento dello scorso 8 ottobre sul funerale del padre di un alto ufficiale degli houthi a Sana’a, nel quale, secondo dati delle Nazioni Unite, più di 140 persone sono morte e 525 ferite; infine è poca cosa anche rispetto al bombardamento della prigione di Hodeida dove 46 detenuti hanno perso la vita.
Nella città di Taiz – da più di sei mesi la front line degli scontri di terra – l’ospedale riceve quotidianamente i corpi dei civili morti negli scontri tra le forze lealiste e i ribelli houthi. Solo per dare un’idea del picco insostenibile a cui questa guerra è arrivata, basti pensare che Msf fa dismesso tutte le sue unità ospedaliere nel Nord del Paese, dopo l’attacco alla struttura di Abs e che la Croce Rossa Internazionale non fornisce né medicine né strumentazioni per il pronto soccorso su Taiz ma ha preferito dotate gli ospedali di morgue, quantomeno per potere stipare decentemente i morti e tenerli a temperature accettabili.
Secondo le Nazioni Unite, questa guerra che in Yemen vede contrapposto il GCC a sostegno del governo lealista del presidente Mansour Rabbo Abdo Hadi contro i ribelli del Nord, i separatisti sciiti coagulatisi attorno alla famiglia al-Houti nel partito Ansarullah, ispirato a Hezbollah, ha già superato ampiamente la cifra di 10mila morti, mentre fino a tre mesi fa sarebbero stati solo 7mila. La situazione di instabilità ormai difficilmente riconducibile alla norma, vede poi l’inserzione sul terreno delle milizie di Ansar al sharia, la sigla qaedista del Golfo che in parte si è saldata a ISIS, in parte ha mantenuto una sua autonomia, e che è molto attiva da Taiz ad Aden, proprio i territori già espugnati agli houti dalle truppe lealiste. Un attacco suicida contro una caserma di reclute governative ad Aden, a settembre, ha fatto 45 morti e centinaia di feriti; per contro, unità della stessa sigla di Aqap sono presenti a Taiz a sostegno delle truppe lealiste, quando si tratta di ripulire l’area dalla presenza dei ribelli del Nord. Ma, nonostante sia stato possibile anche fotografarle, questa narrativa viene scoraggiata dalle stesse milizie, sia a livello locale che internazionale.
Il quadro che viene restituito da più di un anno e mezzo di guerra, oltre a rendere evidente la mattanza dei civili che non ricevono più aiuti umanitari e medicine o strumentazioni per gli ospedali ma solo camere mortuarie per fronteggiare l’ultima emergenza, quella senza speranza, fa dello Yemen un Paese chiave per gli equilibri del Medio Oriente.
Così importante al punto da mobilitare l’Arabia Saudita e l’intero GCC a garanzia di una sua necessaria stabilità e così allettante da rendere necessario, ai ribelli locali, il mantenimento delle sue fratture per garantire una governabilità frammentata e una parcellizzazione di interessi opposti a quelli dei sauditi e dei loro alleati occidentali, soprattutto americani. Su questo conflitto è possibile inserire alcune di note di analisi, una pertinente al livello locale del conflitto, la seconda al livello macro-regionale, e la terza a livello internazionale.
Il conflitto visto da dentro
La guerra in Yemen è poco osservata sotto questo aspetto, come se gli attori sul terreno fossero delle marionette mosse a comando da Iran e Arabia Saudita. Gli interessi, le influenze, i legami storici e di opportunità sono molti, ma non sono tutto. Ignorare il peso delle relazioni tribali in un Paese come lo Yemen equivale a non comprenderne la sua natura intrinseca e ad applicare un metro di analisi che altrimenti non spiegherebbe la forza e la stabilità di al Qaeda, il ruolo dell’esercito e delle sue componenti, il peso che i gruppi separatisti e le tribù che li sostengono hanno in seno alla società civile e la spinta centripeta o centrifuga che possono avere rispetto alla crosta di uno Stato centrale che, contrariamente a quanto sembra dall’esterno, non può coagularsi mai, senza il previo consenso di tutte le tribù (o la loro maggioranza) su una tribù sola e/o su un uomo forte che la rappresenti, possibilmente un generale o un uomo proveniente da attività militari conclamate.
Il conflitto in Yemen è, perciò, più che mai, un conflitto locale: sia tra gruppi separatisti e autorità centralizzate; sia tra l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, destituito con la rivoluzione del 2011, e il neo-presidente tutt’ora in carica, Abdo Rabo Mansour Hadi. Il primo ha certamente un consenso saldo nel Nord del Paese ma nessun appoggio nel GCC e nei suoi alleati americani; il secondo gode dei favori di questi ultimi ai quali si è appellato, ma non ha alcuna autorità sugli yemeniti e sugli stessi rappresentanti dell’Islam radicale, coagulati intorno al partito Islah dei Fratelli musulmani locali, rispetto al quale risulta assai più credibile il potente generale Ali Mohsen al Akmar, già capo dei servizi segreti, e oggi comandante delle operazioni di terra nel Marib contro i ribelli houti.
Il livello del conflitto sul piano macro-regionale vede certamente impegnati Arabia Saudita e Iran, in un braccio di ferro che non conosce riposo e che si arricchisce, mese dopo mese, di radicalizzazioni settarie, di minacce al territorio saudita (sono frequenti i lanci di razzi terra-aria da parte delle milizie houti, su navi della UAE nel Golfo di Aden e, addirittura, verso le città sacre all’Islam in terra saudita), di bombardamenti su obiettivi civili yemeniti senza precedenti. Nessuno dei due contendenti vuole cedere ed entrambi vogliono il Paese per intero, da Nord a Sud, in particolare l’Arabia Saudita che si sente pesantemente minacciata sia sui confini di terra che rispetto al controllo del traffico e trasporto di idrocarburi sullo stretto di Baab el-Mandeb da e verso il Canale di Suez.
I due attori regionali mostrano i muscoli e calibrano le forze sia su questo teatro di guerra che in Siria e Iraq, ma la risoluzione non sarà di breve periodo. Sul lungo periodo, invece, in attesa delle scelte del nuovo presidente degli Stati Uniti, che in politica internazionale condizioneranno anche la politica regionale nel Golfo, si prepara la debacle dell’Arabia Saudita e il suo isolamento internazionale. Al momento, parecchi organismi occidentali stanno raccogliendo informazioni e testimonianze sui bombardamenti sauditi nella campagna di guerra in Yemen, un conflitto che potrebbe diventare il Kuwait della monarchia dei Saud, così come accadde all’ex dittatore iracheno Saddam. Le informazioni, come sperano gli attivisti per i diritti umani, potranno essere utili per inchiodare alle sue responsabilità l’Arabia Saudita, istituendo una commissione indipendente sui crimini di guerra commessi presso l’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu. Per il momento, i tempi nella comunità internazionale non sono maturi, soprattutto per il ruolo ancora preminente che l’Arabia Saudita gioca sia in area Mena che nel business (idrocarburi, dotazioni militari, transazioni finanziarie) con Stati Uniti ed Europa. Ma secondo i suoi detrattori sembra ci siano tutti gli estremi affinché i sauditi, per questa volta, non la possano fare franca.