Rasi al suolo ci sono interi villaggi e quartieri della penisola sud di Haiti, uno dei paesi più poveri del mondo. Il numero dei morti è salito a più di 1000, ma la gravità del disastro non può essere ancora appurata del tutto perché parti del sudovest del Paese sono totalmente inaccessibili. In certi luoghi, è stato distrutto quasi il 100% delle infrastrutture, come hanno mostrato alcune immagini di un drone fornite dall’Afp.
Un ponte indispensabile è stato letteralmente portato via dalle acque e “non avendo mezzi di comunicazione, radio, telefono, strade e nemmeno la possibilità di far atterrare un elicottero”, come dice Jean-Luc Poncelet, rappresentante per il paese presso l’Organizzazione mondiale della salute alla France Press, decine di migliaia di persone stanno dormendo per strada e lottando disperatamente per reperire del cibo e dell’acqua potabile. L’innalzamento delle acque causato dall’uragano ha contaminato i pozzi rendendoli insalubri.
Negli ultimi tempi, il Paese aveva fatto dei buoni progressi, anche nel sud-ovest, con l’arrivo di investimenti per infrastrutture, comunicazioni e alberghi.
“In questo momento occorre assistenza ad almeno 1,4 milioni di persone“, ha detto a una conferenza stampa il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. “Alcune città e paesi sono stati quasi spazzati via dalla mappa; i raccolti e le riserve di cibo sono andati distrutti; almeno 300 scuole sono danneggiate”.
Le riserve di cibo messe da parte dal World Food Program per le scuole stanno servendo per sfamare un alto numero di famiglie disperate, spiega Alexis Masciarelli, portavoce del Wfp. Sabato, gli Stati Uniti hanno consegnato 480 tonnellate di cibo e medicinali a Port-au-Prince.
A causa delle condizioni logistiche, tuttavia, la distribuzione è molto difficile e nel reperimento dei beni di sussistenza in questo momento hanno la meglio i più forti. In un passo nella parte montagnosa della penisola, i locali hanno messo blocchi sulla strada nel timore che le colonne con gli aiuti passassero senza lasciare qualcosa anche a loro. Un soccorritore ha raccontato all’AP che un altro gruppo di camion è stato attaccato da uomini armati in una valle remota dove c’era stata una frana. In una spiaggia, in centinaia hanno atteso che una nave scaricasse gli aiuti.
I funzionari haitiani e delle agenzie temono, inoltre, che se gli aiuti saranno forniti solo nelle città – Jérémie, Port Salut e Les Cayes – gli abitanti dei villaggi resteranno nelle città sovraffollandole.
“Dobbiamo pensare a sviluppare un piano per coordinare l’aiuto e fornirlo laddove è più necessario e non dove è più facile arrivare”, dice Mourad Wahba, il coordinatore Onu nel paese alla stampa. “Dobbiamo concentrarci nel fornire aiuto alle piccole comunità rurali dove molte famiglie praticano l’agricoltura di sussistenza e ora hanno i raccolti distrutti“.
Il paese potrebbe affrontare “una gravissima carestia“, spiega l’ambasciatore di Haiti presso le Nazioni Unite, perché la regione del sudovest, quella più distrutta dall’uragano, è “considerata il paniere di Haiti”. Dopo la peggiore siccità in cinquant’anni, Matthew ha colpito proprio durante la stagione del secondo raccolto.
È impossibile determinare l’entità dei raccolti distrutti, secondo alcuni gruppi che lavorano con i contadini nella regione della Grand Anse, perché non possono comunicarvi.
L’uragano ha anche segnato l’arresto di una massiccia campagna di vaccinazione che stava affrontando anche i problemi critici dell’acqua, degli impianti sanitari e della salute.
Il medico haitiano John Carroll ha scritto un post cinque giorni fa sull’ospedale Lumière, isolato nelle montagne del sud di Haiti. “Non abbiamo nessuno che ci fornisca del cibo, operatori e pazienti sono affamati. Un uomo che ha perso la gamba ha detto che lo stomaco vuoto gli faceva più male della ferita”. Salvare delle vite vuol dire anche trovare benzina per le ambulanze.
In più, il sistema sanitario haitiano, sotto finanziato e sotto attrezzato, ora deve affrontare una epidemia di colera, una malattia sconosciuta agli haitiani prima dell’arrivo dei Caschi blu dell’Onu nel 2010 e ora endemica.
L’ospedale Saint Antoine a Jérémie ha registrato già 43 casi. Altri 130 sono confermati e 160 sono sospetti nella regione. Negli ultimi giorni sono morte 12 persone uccise dal batterio che si diffonde tramite l’acqua causando una diarrea grave e vomito. Ora con la tempesta, le fonti d’acqua sono state contaminate dallo straripamento delle cloache aumentando il rischio di contagio.
Dopo il terremoto, i Caschi blu che arrivavano dal Nepal, dove il colera è endemico, non furono controllati. Dal loro accampamento lasciarono fluire le acque infette in un fiume tributario dell’Artibonite, il principale fiume di Haiti. Gran parte della popolazione ne dipende per l’acqua per lavare, cucinare e bere. Il colera, che in altre circostanze è una malattia prevenibile e trattabile, si diffuse rapidamente uccidendo da allora più di 9200 persone infettando circa 1 milione.
La settimana scorsa, per la prima volta, l’Onu ha riconosciuto una sua responsabilità nella micidiale epidemia.
“Provo pentimento e dolore per la profonda sofferenza degli haitiani colpiti dal colera”, ha detto Ban, definendo “una responsabilità morale” la “necessità di assolvere i nostri obblighi nei confronti degli haitiani”.
L’Onu negò inizialmente qualsiasi responsabilità, ma dei giornalisti sul posto e degli scienziati la provarono, perché quel particolare ceppo di colera proveniva da un’epidemia in corso nel Nepal. Il tutto fu confermato nel 2011 da uno studio del Centro per il controllo delle malattie Usa.
Chi si deve assumere la responsabilità in questi casi? Chi paga?
L’Onu ha finora rifiutato di stabilire un meccanismo per il risarcimento delle vittime. Vari gruppi di attivisti dei diritti umani hanno sostenuto gli haitiani per un’assunzione di responsabilità dell’Onu, nonostante l’immunità di cui essa gode.
Forti dell’argomento che il primo principio delle organizzazioni umanitarie è “non fare danni”, e che alla negligenza iniziale si sono aggiunte una mancanza di onestà e di trasparenza che hanno impedito una risposta più efficace, gli avvocati delle vittime hanno chiesto come risarcimento 50.000 dollari per malato e 100.000 per ogni persona morta. All’Onu toccherebbe pagare quindi circa 38 miliardi di dollari, vale a dire, quattro volte il budget annuo per le operazioni di salvaguardia della pace.
“Esprimo nuovamente la responsabilità morale delle Nazioni Unite e il mio pentimento, avremmo dovuto fare molto di più”, ha detto Ban durante una visita in Svizzera. “Riaffermo l’impegno dell’Onu a fare tutto ciò che è nel suo potere innanzitutto per i pazienti e per fermare l’epidemia e per sostenere le famiglie delle vittime e le vittime”. Ora più che mai occorre che l’impegno di Ban si espleti nel più breve tempo possibile.
Un ponte indispensabile è stato letteralmente portato via dalle acque e “non avendo mezzi di comunicazione, radio, telefono, strade e nemmeno la possibilità di far atterrare un elicottero”, come dice Jean-Luc Poncelet, rappresentante per il paese presso l’Organizzazione mondiale della salute alla France Press, decine di migliaia di persone stanno dormendo per strada e lottando disperatamente per reperire del cibo e dell’acqua potabile. L’innalzamento delle acque causato dall’uragano ha contaminato i pozzi rendendoli insalubri.