Per il Consiglio legislativo ha votato il 30% degli elettori, disincantati da un risultato deciso in partenza: il dato più basso nella storia del Paese
In tempo di elezioni, negli anni passati, Hong Kong sembrava quasi un territorio pienamente democratico: dibattiti televisivi e nei luoghi pubblici, volantinaggio per le strade, manifesti elettorali ovunque e schiere di volontari al lavoro per i loro candidati. Ora invece, gli ultimi due esercizi elettorali sono quasi ignorati dalla maggior parte della popolazione: le ultime elezioni del Consiglio legislativo, sorta di mini-parlamento locale a poteri ridotti (può approvare, ma non proporre, leggi) tenutesi lo scorso settembre, hanno riportato il 30% di affluenza alle urne, il dato più basso nella storia di Hong Kong.
E le elezioni del Capo dell’Esecutivo, che erano previste per marzo, sono state rimandate a maggio a causa dell’intensificarsi a Hong Kong dei contagi da Covid-19, ma solo un industriale senza esperienza in politica e senza appoggi concreti ha detto di volersi presentare come candidato – se il governo centrale approva la sua candidatura. La riforma elettorale secondo la quale solo i candidati giudicati “patriottici” possono presentarsi alle elezioni, e l’abbattersi su Hong Kong della Legge sulla Sicurezza Nazionale, imposta da Pechino nel 2020, hanno tolto ogni velleità di democratizzazione a Hong Kong, e nessuno presta nemmeno più tanta attenzione a quello che è diventato un esercizio privo di input popolare.
Le manifestazioni pro-democrazia del 2019
Il fermento che si era visto fino al 2019 era uno dei segnali più forti di quanto la popolazione di Hong Kong fosse davvero desiderosa di una democrazia più ampia, con suffragio universale pieno per tutti e tre gli attuali livelli di governo (distrettuale, legislativo, ed esecutivo). Una prospettiva che Pechino non era pronta ad accettare: la Cina, infatti, non ha elezioni per suffragio universale, i leader vengono scelti all’interno del Partito, e la promessa fu fatta ad Hong Kong all’epoca dei preparativi per il passaggio di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina, Pechino promise il suffragio universale, ma senza offrire una data. Poi, un tentativo di escamotage, con l’annuncio, nel 2014, delle elezioni popolari per il Capo dell’Esecutivo di Hong Kong (la figura più importante nella gerarchia politica locale) che poteva però essere scelto solo fra due, massimo tre, candidati pre-approvati da Pechino. Le manifestazioni passate alla storia come il Movimento degli Ombrelli di quell’anno, che bloccarono per quasi tre mesi alcune delle vie nevralgiche del territorio, furono proprio in risposta a questa versione di suffragio universale considerata inaccettabile, e descritta all’epoca come “elezioni alla nordcoreana”.
Nel 2019, quando di nuovo Hong Kong scese in piazza per mesi interi, in quelle che divennero manifestazioni sempre più caratterizzate dalla violenza poliziesca e da un raro inasprirsi anche delle azioni di alcuni dei manifestanti, le elezioni distrettuali di novembre si tennero con il 74% di affluenza alle urne. Una dimostrazione di quanto gli aventi diritto al voto continuavano a credere che le tensioni potessero essere risolte tramite le urne. Si è trattato invece di un’elezione che sembra aver definitivamente convinto Pechino a non fidarsi della volontà popolare liberamente espressa. Dopo anni passati a cercare di rafforzare i partiti definiti “pro-Pechino” – dato che l’assetto politico di Hong Kong è suddiviso fra schieramenti pro-Pechino e schieramenti pro-democrazia, prima ancora di essere ulteriormente suddivise in più tradizionali destra, centro e sinistra – che non hanno mai ottenuto la maggioranza popolare, la Cina ha deciso che le elezioni andavano modificate in modo drastico. Le elezioni distrettuali del 2019 avevano portato a 17 dei 18 distretti in cui è suddivisa Hong Kong a essere amministrate da consiglieri pro-democrazia, la maggioranza dei quali aveva espresso sostegno per le proteste nel corso della campagna elettorale. Uno dopo l’altro, i consiglieri sono stati quasi interamente squalificati per non poter sottostare al nuovo requisito obbligatorio di essere considerati “patriottici” dal Governo, e la popolazione sembra aver deciso che elezioni il cui risultato è deciso in partenza non hanno bisogno di essere prese sul serio.
Non che le cose fossero prive di intoppi prima: come abbiamo detto, le elezioni erano solo parziali. Nel Consiglio legislativo, prima della riforma patriottica, sedevano 70 legislatori, di cui solo 35 eletti per suffragio universale, mentre l’altra metà era selezionata tramite il voto di grandi elettori di categoria, che sceglievano un loro rappresentante. Dopo la riforma invece il numero dei legislatori è salito a 90, ma solo 20 sono eletti per suffragio universale, fra candidati pre-approvati. La bassa affluenza alle urne è infatti stata analizzata come il dato più importante delle elezioni del 2021, e non ha stupito gli analisti locali: per quanto fosse stato dichiarato illegale incitare a votare scheda bianca, o a non recarsi alle urne, gli aventi diritto al voto hanno preferito l’astensione. Fonti diplomatiche confermano che Pechino sia rimasta offesa dalla decisione degli hongkonghesi di non andare a votare, ma questo dimostra solo, ancora una volta, quanto profonda sia l’incomprensione che il Partito comunista cinese continua ad avere nei confronti di una società libera e delle sue aspirazioni.
Gli arresti e le elezioni per il prossimo Capo dell’Esecutivo
In passato, poi, le elezioni per il Capo dell’Esecutivo suscitavano grande attenzione, per quanto avessero diritto al voto solo 1200 persone, anche loro pre-selezionate: era infatti possibile cercare di esercitare una modica pressione sui candidati nel corso dei dibattiti pubblici, o nel corso di manifestazioni di piazza, se non altro per convincerli di quali fossero le tematiche che stavano particolarmente a cuore alla popolazione. Dal gennaio del 2020 invece non è più stato possibile manifestare, a Hong Kong, e se anche un’autorizzazione dovesse essere data, tutti i temi che potrebbero portare a una “disaffezione nei confronti del governo locale o centrale” sono considerati in contravvenzione della Legge sulla Sicurezza Nazionale. Non solo: ad oggi, sono imprigionati per aver infranto questa stessa legge i 47 principali rappresentanti dell’opposizione pro-democratica di Hong Kong, in attesa di processo da più di un anno. Sono accusati di “cospirazione per commettere atti sovversivi” per aver organizzato e preso parte a delle primarie nel luglio del 2020, dopo che l’accusa ha stabilito che cercare di vincere le elezioni era un tentativo di sovvertire il governo. Le elezioni legislative del settembre del 2021 si sono dunque tenute con i politici più amati di Hong Kong dietro le sbarre o in esilio.
Inutile dunque immaginare che Hong Kong nutra grosse aspettative per l’elezione prossima del capo dell’Esecutivo: non solo la scelta avverrà, una volta di più, senza chiedere l’opinione popolare, ma ora che la stampa indipendente è stata fatta chiudere, e che i rappresentanti politici invisi a Pechino non sono più liberi di parlare, la questione di chi possa venire scelto a dirigere il Governo locale non è poi così avvincente. Continua a non essere chiaro, fra le altre cose, se Pechino vorrà far rimanere al potere Carrie Lam, l’attuale numero uno, molto impopolare fra la popolazione e che non solo era al potere quando la città fu travolta dalle manifestazioni, ma che sembra anche aver fallito nel compito di mantenere a Covid Zero Hong Kong (che al momento di scrivere registra diverse decine di nuovi casi al giorno). Altri nomi di possibili favoriti, però, non sono ancora stati resi pubblici, e resta dunque da vedere se Pechino vorrà far sì che nessuno dei Capi dell’Esecutivo selezionati nei primi 25 anni di Hong Kong in quanto Regione ad amministrazione speciale sotto la Cina sia stato sufficientemente apprezzato (da Pechino o da Hong Kong) da servire per due pieni mandati.
La formula di “Un Paese Due Sistemi” con cui Hong Kong doveva essere governata sta infatti mostrando tutti i suoi limiti – dal momento che il Paese in questione è allergico alla democrazia, un fatto che prende il sopravvento su ogni caratteristica dei “due sistemi” autorizzata a sopravvivere.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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Per il Consiglio legislativo ha votato il 30% degli elettori, disincantati da un risultato deciso in partenza: il dato più basso nella storia del Paese