I curdi del Nord (Turchia), quelli dell’ovest (siria) e quelli dell’est (iran) sono avversati dalle potenze regionali che invece flirtano con i curdi del sud (iraq).
La questione curda non è un monolite privo di sfaccettature, anzi, le divisioni interne sono da sempre uno dei limiti maggiori della causa indipendentista. Il solco più largo sembra essere quello che divide il PYD (Partito dell’Unione democratica) curdo-siriano e il PDK (Partito Democratico del Kurdistan) curdo-iracheno. La formazione siriana è infatti di ispirazione socialista e propugna il confederalismo democratico teorizzato dal leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) Abdullah Öcalan. La formazione irachena, guidata dal clan Barzani, è invece di ispirazione conservatrice e nazionalista. La prima è considerata un nemico mortale dalla Turchia, la seconda un’interlocutrice affidabile.
Negli anni della guerra allo Stato Islamico la causa curdo-siriana del PYD è diventata molto popolare anche in Occidente, grazie agli atti di eroismo delle Unità di protezione popolare (YPG e la brigata femminile YPJ) ad essa legate, e non solo. La fascinazione verso il PYD e le sue milizie non è infatti dipesa soltanto dall’antico adagio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, ma anche – se non soprattutto – dalle caratteristiche “politiche” di questa causa.
Il sogno di una repubblica democratica parlamentare fondata sul pluralismo, sul decentramento del potere, sul rispetto dell’ambiente, sulla parità tra uomini e donne, sull’applicazione dei valori più alti del socialismo ha reso l’esperimento del Rojava – il Kurdistan siriano, liberato dall’occupazione dell’Isis grazie a una serie di scontri e battaglie, di cui Kobane è solo la più famosa – una fonte di seduzione per l’opinione pubblica occidentale. Sono così nate brigate internazionali di combattenti stranieri, spesso giovani, che andavano in Siria per affiancare le milizie dell’YPG nella loro guerra di liberazione. È nata così la leggenda delle guerrigliere curde dell’YPJ, temute sopra ogni cosa dagli uomini dell’Isis in quanto donne, che hanno dimostrato come anche in una società musulmana fossero possibili progresso e uguaglianza. Sono nate – o sono state rafforzate – le milizie delle altre minoranze etniche dei territori occupati e devastati dall’Isis, ad esempio quella degli Yazidi. Questa minoranza, che viveva al confine tra Siria e Iraq, è stata massacrata senza pietà dagli uomini del Califfato nel 2014. Abbandonati dai Peshmerga curdo-iracheni (legati al PDK), che avrebbero dovuto proteggerli e che invece si sono ritirati davanti all’avanzata inarrestabile dell’Isis, gli Yazidi sono stati aiutati dal PKK e dall’YPG, che hanno aperto dei corridoi sicuri per portare quanta più gente possibile nel Rojava siriano. A quel punto, sia uomini sia donne, si sono arruolati nelle loro milizie, YBŞ e (quella solo femminile) YJÊ.
Ovviamente non sono mancati e non mancano gli aspetti negativi: alcuni report internazionali accusano le milizie curdo-siriane di reclutamenti forzati di minorenni, di persecuzione politica degli oppositori, di pulizia etnica a danno delle popolazioni arabe, che sarebbero state spostate dai loro territori, e via dicendo. Ma queste accuse per ora non sono bastate a distruggere l’immagine positiva della propria causa che il PYD e le sue milizie hanno saputo proiettare negli anni della guerra all’Isis.
Ma a questo favore mediatico ed “emotivo” nei confronti dei curdi-siriani legati a PYD e YPG non ha sempre corrisposto un analogo favore da un punto di vista politico-internazionale. Gli Stati Uniti, che pure hanno sfruttato l’YPG come fanteria contro l’Isis, hanno a lungo rifiutato di fornire armamenti avanzati alle milizie curdo-siriane, per non scontentare eccessivamente la Turchia che del PYD è acerrima nemica, visti i legami di questa formazione col PKK, considerato da Ankara un’organizzazione terroristica. Ma non solo. Anche la Russia, che in Siria è l’attore principale che controlla e gestisce tutte le varie partite aperte sullo scacchiere, ha abbandonato e sacrificato i curdi siriani del cantone occidentale di Afrin, a lungo suoi interlocutori. Putin ha infatti lasciato che l’esercito turco occupasse militarmente questo cantone a inizio 2018, per avere in cambio l’appoggio della Turchia nello smantellare le ultime sacche di ribelli in Siria disposti a impugnare le armi contro la dittatura di Assad.
Specularmente i curdi iracheni del PDK hanno goduto, relativamente, di meno simpatia da parte dell’opinione pubblica occidentale negli ultimi anni. La loro guerra contro l’Isis in Iraq, forse a causa anche di episodi come l’abbandono degli Yazidi, non ha creato una narrazione affascinante ed eroica come quella dei curdi siriani e della resistenza di Kobane. Eppure il favore politico nei loro confronti è stato molto superiore a quello per il PYD, con gli Stati Uniti e la stessa Turchia che hanno storicamente cercato di avere buone relazioni – anche economiche e commerciali – con il Governo Regionale del Kurdistan (KRG) iracheno, guidato da Masud Barzani fino a poco tempo fa.
Questo favore politico è venuto solo momentaneamente meno quando Masud Barzani ha voluto spingersi troppo in là, per i gusti dei suoi alleati stranieri, indicendo un referendum per l’indipendenza della Regione Kurda Irachena e vincendolo nel 2017. Baghdad ha reagito presto e duramente, riconquistando la città di Kirkuk – importantissimo bacino petrolifero – che era stata liberata dall’Isis dai Peshmerga curdi e da loro controllata fino a quel momento, e alzando in generale i toni con Erbil (la capitale del Kurdistan iracheno). Ankara, Teheran e Damasco – gli altri Stati al cui interno vivono le comunità curde – hanno subito condannato le pulsioni indipendentiste dei curdi iracheni e nessuno in Occidente ha fornito una sponda sufficientemente forte alle ragioni del referendum. L’indipendenza non si è quindi concretizzata e Masud Barzani ha dovuto lasciare la guida del KRG, che aveva mantenuto ininterrottamente da dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003. Ma, come si era rapidamente mutato in ostilità, il favore dei vari attori regionali e internazionali nei confronti del PDK è altrettanto velocemente ritornato una volta accantonato il rischio di un Kurdistan iracheno indipendente. A distanza di neanche un anno dal referendum vinto ma fallito, le relazioni di Erbil con Baghdad, Ankara e Washington si sono nuovamente normalizzate. Un altro Barzani leader del PDK – il nipote di Masud, Nechirvan, che già ha l’incarico di primo ministro – potrebbe presto diventare il nuovo presidente, succedendo così allo zio.
Ma perché il PDK curdo-iracheno del clan Barzani gode di un trattamento tanto migliore rispetto al PYD curdo-siriano? In parte è una questione ideologica: il PYD è erede di una tradizione marxista che non ha mai avuto le simpatie degli Stati Uniti e della Turchia. Questo ha creato anche dei precedenti storici, ad esempio durante la guerra civile curdo-irachena di metà anni ‘90, quando il PDK è stato sostenuto dalla Turchia contro le formazioni marxiste legate al PKK (su tutte il PUK curdo-iracheno). Ma, al di là della storia e dell’ideologia, il vero discrimine oggi sembra essere soprattutto il rapporto con la Turchia. Chi le è nemico, come il PYD, viene facilmente sacrificato da altri Stati che pure potrebbero essere stati momentaneamente alleati dei curdi (come di recente gli Usa e la Russia), perché la pedina turca è troppo importante nello scacchiere mediorientale rispetto a quella curda. Chi non le è ostile, e non calca troppo l’accento sulla questione dell’indipendentismo, sa di poter godere delle buone relazioni con Ankara da un punto di vista commerciale e geopolitico. Questo schema, un divide et impera che corre sulle diverse relazioni tra componenti curde e Turchia, ha retto finora.
Nell’estrema fluidità che sembra caratterizzare il Medio Oriente dopo il fallimento delle Primavere arabe e l’infiammarsi dello scontro sunniti-sciiti – paravento dello scontro geopolitico tra Iran e Arabia Saudita -, e soprattutto con il progressivo allontanamento degli Usa dalla regione, la dinamica dei rapporti potrebbe tuttavia forse cambiare. La Turchia si è sempre più spostata nell’orbita di influenza del Cremlino, pur rimanendo formalmente all’interno della Nato, e i rapporti tra Washington e Ankara sono sempre più tesi. Se la crisi tra la Casa Bianca e Erdogan, cominciata già a inizio anni Dieci ma aggravatasi durante la guerra civile siriana e soprattutto dopo il fallito golpe del 2016, dovesse giungere alle sue estreme conseguenze lo scenario potrebbe cambiare radicalmente. Fantapolitica? Forse. Alla stessa Turchia in fondo probabilmente non conviene staccarsi definitivamente dall’Occidente, ma restare in una posizione ambigua per poter trattare sia con gli Usa che con la Russia. Ma se la miopia strategica mostrata da Erdogan nell’ultimo periodo dovesse giungere alle estreme conseguenze, la carta dell’autonomia curdo-siriana permetterebbe agli Stati Uniti di punire un ex alleato “traditore” come Ankara e contemporaneamente di creare gravi problemi a due Stati “nemici” come la Siria e l’Iran.
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I curdi del Nord (Turchia), quelli dell’ovest (siria) e quelli dell’est (iran) sono avversati dalle potenze regionali che invece flirtano con i curdi del sud (iraq).