Lo scorso quindici giugno delle “straordinarie piogge” si sono “abbattute” sul nord dell’India, “devastando” alcuni distretti dell’Uttarakhand, stato indiano schiacciato tra il Nepal ed il Tibet, zona himalayana.

Il numero delle vittime e le immagini terribili provenienti dal distretto di Kedarnath – fiumi di fango che si portavano via palazzine intere ed automobili – lasciavano intendere un’eccezionalità da cataclisma naturale imprevisto, una di quelle furie della natura che si sfoga senza preavviso, come un terremoto o uno tsunami. In Italia, con un po’ di faciloneria esotica, si è parlato di “monsone assassino”.
Ma se è vero che le piogge nella regione sono arrivate con un paio di giorni d’anticipo, rimane il fatto che il mese di giugno, dall’alba dei tempi, è stagione di monsoni: come ogni anno, c’è poco da fare, in quel periodo nell’India del nord piove, e piove tanto.
Gli indiani lo sanno, tutti, e presto la stampa locale ha preferito concentrarsi sulle colpe dell’evitabile e non sulla disperazione dell’inevitabile.
I distretti più colpiti coincidono curiosamente con le mete di pellegrinaggio più quotate della zona, il complesso dei “chota char dham”, le “quattro piccole dimore” venerate dai fedeli hindu in quanto località dove risiede il sacro. Si tratta di due sorgenti rispettivamente del Gange e dello Yamuna, fiumi che in India sono considerati divinità femminili, e due templi che ospitano manifestazioni di Shiva e Visnu. Luoghi inerpicati su per le montagne più alte del mondo, posti tanto sacri quanto – un tempo – irraggiungibili.
La spinta del turismo religioso ha drammaticamente trasformato l’ecosistema locale: per ampliare l’utenza del pellegrinaggio hindu, negli anni la costruzione selvaggia di strade e soprattutto hotel ed ostelli per pellegrini ha indebolito il suolo, annunciando una tragedia imminente che trova i propri presupposti nella scelleratezza umana piuttosto che nella vendetta della natura.
Dopo due giorni di pioggia i pellegrini dispersi erano più di 80mila, tutti concentrati nei quattro distretti di Gangotri, Yamunotri, Kedarnath e Badrinath. Per rendere l’idea, secondo l’ultimo censimento del 2011, in Uttarakhand vivono dieci milioni di persone, uno degli stati meno popolati della federazione indiana; ogni anno arrivano però oltre venti milioni di pellegrini.
La marea di fedeli che a scadenze regolari invade le valli dell’himalaya ha fatto decuplicare il numero di automobili e triplicato l’estensione della rete stradale, infrastrutture realizzate approfittando degli incentivi statali per la costruzione di opere per il turismo. Col potenziamento dei collegamenti sono sorti anche hotel di lusso: ora che raggiungere le mete del pellegrinaggio è facile, lo deve essere anche il soggiorno, fornendo alberghi di lusso ideali per le scampagnate dei ricchi delle metropoli, devoti senza rinunciare ai comfort della città.
Parallelamente, l’Uttarakhand ha investito anche nelle risorse energetiche, costruendo decine di centrali idroelettriche secondo la visione di prosperità di Ramesh Pokhriyal, ex chief minister dello stato in quota Bjp, il partito conservatore indiano a trazione hindu. Col cambio di colore dell’amministrazione, passata al Congress con Vijay Bahuguna, non è cambiata l’impostazione speculativa della zona: il magazine Tehelka, in un lungo reportage, indica che oggi in Uttarakhand ci sono 73 centrali idroelettriche, violenze contro l’ecosistema himalayano che solo in questi giorni, quando si vocifera di 10mila vittime di cui migliaia ancora intrappolate nel fango, mostrano tutta la loro follia.
Questa tragedia, già accomunata allo tsunami del 2004, ha radici fin troppo umane e dice molto dell’India di oggi. L’esaltazione dell’esercito, mobilitato in extremis per aviotrasportare migliaia di pellegrini, si alternava alla preoccupazione per la perdita del patrimonio culturale della “Terra degli dei”, come viene chiamato l’Uttarkhand.
Il Bjp in particolare si è mobilitato immediatamente con Narendra Modi, autoritario e devotissimo chief minister del Gujarat, che con un’azione alla Rambo si è recato di persona nei luoghi del disastro con una task force personale per “riportare a casa i pellegrini gujarati”: giubbotto di salvataggio arancione e sprezzo del pericolo, Modi ha millantato di aver salvato personalmente 15mila conterranei, portandoli sani e salvi in Gujarat con voli charter organizzati ad hoc. Realisticamente la cifra è da rivedere drasticamente al ribasso almeno del 90 per cento, ma tant’è, tra sparate populiste e promesse di ricostruire interamente tutti i siti danneggiati pagando cash dalle casse del Gujarat – incassando un deciso rifiuto dall’amministrazione locale – l’operazione mediatica del Bjp è andata a segno.
La campagna elettorale permanente del pio Modi, proiettato verso la premiership del 2014, non si ferma né davanti agli dei, né davanti alle macerie, né davanti ai cadaveri.
Lo scorso quindici giugno delle “straordinarie piogge” si sono “abbattute” sul nord dell’India, “devastando” alcuni distretti dell’Uttarakhand, stato indiano schiacciato tra il Nepal ed il Tibet, zona himalayana.