A Klagenfurt una mostra celebra la scrittrice Ingeborg Bachmann e il suo sentirsi a casa di qua e di là dalla frontiera.
Con la caduta del Muro nel ’89, il progressivo allargamento dell’Ue e dunque dello spazio Schengen, i confini sembravano entità appartenenti al passato. E invece, l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq, così come di migranti dall’Africa, hanno riportato al centro dell’attenzione pubblica le frontiere. Si torna ad alzare barriere, a costruire recinzioni per contrastare quella che per alcuni, come il premier ungherese Viktor Orban, Jaroslaw Kaczynski, il leader del partito polacco nazionalista PiS e il premier slovacco Robert Fico è una vera e propria invasione. E anche l’Austria dopo un’iniziale sodalizio con la politica dell’accoglienza della Kanzlerin Angela Merkel, ha cominciato a fare muro – è stata Vienna di fatto a chiudere la rotta Balcanica – a minacciare di costruire, se necessario, una recinzione anche al Brennero.
Ed è anche alla luce questa voglia di chiudersi di nuovo dietro alle frontiere nazionali (la sospensione del Trattato di Schengen per sei mesi da parte di Germania, Austria, Svezia, Danimarca e Norvegia, è già stata rinnovata, per altri sei mesi con il benestare di Bruxelles) che risulta particolarmente interessante la mostra fotografica dedicata alla scrittrice Ingeborg Bachmann, al Robert Musil Literatur Museum di Klagenfurt, città natale di Bachmann, nonché capoluogo della Carinzia, regione che confina con l’Italia e la Slovenia. Ed è da questa contiguità che nasce la particolare sensibilità di Bachmann nel sentirsi uno e al tempo stesso l’altro: “Sono al confine con un altro paese e dunque con un’altra vita”; “Vicino al confine vuol dire di nuovo confine: il confine della lingua – e io mi sentivo a casa di qua e di là” scrive.
La mostra (in programma fino al 25 novembre) si divide in due parti. La prima espone una trentina di fotografie in bianco e nero, scattate dal fratello Heinz nel 1972 durante una sua visita, insieme ai genitori, alla sorella a Roma. La macchina fotografica gli era stata da poco regalata dal padre, e Ingeborg l’aveva pregato di farle delle foto, perché ne aveva di poco adatte per gli editori. Molte sono note, parecchie appaiono in posa, ma ce ne sono in particolare tre che sembrano “rubate: in una la si osserva mentre si guarda in uno specchietto da borsa (una foto che a lei non piaceva affatto), in altre due, concentrata durante una partita di scacchi. Heinz le ha messe a disposizione del Museo in occasione dei 90anni che la scrittrice avrebbe compiuto quest’anno.
La seconda parte è composta da una videoinstallazione sugli anni dell’adolescenza a Klagenfurt (il trauma mai superato dell’Anschluss: “C’è stato un momento che ha distrutto in un colpo la mia infanzia: è stato l’ingresso delle truppe naziste di Hitler a Klagenfurt”) e quindici still life, foto a colori rielaborate con ago e filo intitolate “Confini in parole e immagini” dove le parole in tedesco hanno il loro corrispettivo sloveno (anche se Bachmann stessa quella lingua non la parlava).
Come scriveva negli anni 80, l’ungherese György Sebestyen, intellettuale, scrittore e reporter di spicco, fuggito dopo la rivolta del 1956 da Budapest a Vienna: “Il fatto che gli scrittori dei piccoli paesi della Mitteleuropa vivano più vicino ai confini, li rende più sensibili alle tensioni che ne scaturiscono”. Sebestyen intendeva, la possibilità di essere invasi, e al tempo stesso l’esatto opposto: cioè la percezione che “il confine non necessariamente significa separazione, ma una striscia di terra di incontro e scambio”.
Ingeborg Bachmann il confine lo intendeva probabilmente proprio nel senso dell’incontro. I suoi concittadini, invece, all’opposto come minaccia. Soprattutto quello con la Slovenia. In loro agisce, agiva il pregiudizio storico, un falso senso di superiorità nei confronti dei paesi dell’est (come spiega sempre Sebestyen). Ed è per questo che la contiguità con Slovenia segnerà per decenni il dibattito in Carinzia sull’opportunità o meno di mettere cartelli stradali bilingue. I nazionalisti dell’Fpö sono sempre mostrati contrari, Jörg Haider, durante gli anni in cui ha guidato l’Fpö ed è stato governatore della regione, aveva fatto del NO uno dei suoi cavalli di battaglia. “Ma quanto il confine, l’appartenenza a un dato luogo geografico, sia importante da queste parti, lo dimostra in modo paradigmatico la storia di questo museo letterario” spiega Heimo Strempfl, direttore dello stesso. “Il fatto che porti il nome di Robert Musil ha fatto a suo tempo storcere il naso a non pochi. Perché è vero che Musil è nato a Klagenfurt, ma non ci ha praticamente mai vissuto, argomentavano i critici”.
Ma tutto passa, le priorità diventano altre (oggi si chiamano gestione e contenimento dell’arrivo dei profughi). E poi oggi chi esce dalla stazione centrale di Klagenfurt, è come se venisse accolto non solo da Musil, ma anche da due glorie letterarie veramente autoctone: da Bachmann e dalla poetessa Christine Lavant. A dargli il benvenuto sono i ritratti di questi tre letterati sulla facciata del Museo che si trova proprio di fronte alla stazione. “Sono stati realizzati dal francese Jef Aérosol, pioniere della street art, che ha lavorato nelle più importanti metropoli, da Parigi a New York, da Londra a Berlino a Roma” racconta Strempfl. “Il fatto che abbia realizzato quest’opera a Klagenfurt, lo dobbiamo non ultimo alla sua passione per Sigmund Freud. Il che dimostra” ci tiene a sottolineare il direttore, “come la cultura non solo getta ponti tra passato e presente, ma anche tra le nazioni”. E a tal proposito ricorda chi ha vinto quest’anno la 40esima edizione del Ingeborg Bachmann Preis, uno dei premi letterari di lingua tedesca più prestigiosi: Sharon Dodua Otoo una scrittrice di origini africane.
A Klagenfurt una mostra celebra la scrittrice Ingeborg Bachmann e il suo sentirsi a casa di qua e di là dalla frontiera.