«È tempo che Hanoi smaltisca la sbornia, o questi saccheggiatori finiranno per far soffrire tutto il paese. La tolleranza di Hanoi non deve mettere alla prova – oltre il limite – la pazienza della Cina», ha scritto ieri il quotidiano in inglese del Partito comunista Global Times, a seguito delle proteste vietnamite contro le fabbriche di Pechino, prima ancora che si diffondessero le notizie circa la morte di lavoratori cinesi (ventuno secondo fonti Reuters). Ma oggi la novità si concentra sulle fabbriche e la produzione, interrotta a causa delle proteste. E per il Vietnam si apre il baratro della perdita di investitori.
Quelli di Pechino sono toni duri, che confermano come la peggiore crisi tra Vietnam e Cina, da quando nel 1979 si confrontarono militarmente, sia in pieno svolgimento. E c’è chi ritiene che la nuova tensione tra i due paesi potrebbe portare a nuovi venti di guerra in Asia. Il confronto, infatti, non rientra solo nell’ambito delle relazioni tra Cina e Vietnam, ma si inserisce all’interno di strategie e alleanze, su cui incombe, manco a dirlo, la nuova strategia «pivot to Asia» di Obama, pronta a dare linfa a chiunque nell’area giudichi in modo sospettoso l’agire cinese. Pechino del resto si comporta in queste zone come nel giardino di casa, con poco rispetto delle esigenze dei paesi vicini e con molta arroganza, data la propria nuova forza militare ed economica.
Quanto accaduto in Vietnam, però, rischia di offrire ai falchi pechinesi che si annidano nell’esercito, una scusa fin troppo banale. I vietnamiti stanno assaltando da giorni fabbriche cinesi (spesso hanno finito per essere danneggiate anche aziende taiwanesi). Rimane il fatto che queste proteste, cui sono seguiti scontri, hanno provocato morti tra i cinesi.
E ora il problema non è più solo tra Cina e Vietnam ma diventa anche un problema economico mondiale. Come annunciato, infatti, le fabbriche in Vietnam che producono i prodotti per i rivenditori mondiali, tra cui Wal-Mart e Nike hanno fermato la produzione.

Come ha scritto il Financial Times, «La camera di commercio taiwanese in Vietnam ha specificato che molti uomini d’affari stanno andandosene a causa della violenza e dell’incapacità della polizia di controllare la situazione. Il governo ha inviato la polizia antisommossa, ma sono di gran lunga in inferiorità numerica rispetto ai manifestanti, ha detto Hsieh Shu-ting, vice capo della camera».
Il primo ministro vietnamita ha rilasciato una dichiarazione giovedì scorso, invitando i governi locali, la polizia e i militari a fermare la violazione della legge da «cattive persone» che nella confusione generale hanno anche saccheggiato le fabbriche. Ha poi invitato le persone a «dare un contributo alla nazione nella protezione del nostro territorio sovrano, secondo il diritto nazionale e internazionale». Un tentativo di evitare l’escalation, poco convincente davvero.
Così mentre il Vietnam è in imbarazzo e continua le proteste, i paesi che hanno la produzione in Vietnam hanno chiesto maggiore sicurezza. «La situazione rischia di danneggiare la reputazione del Vietnam, che fa pesantemente affidamento sugli investimenti giapponesi, della Corea del Sud e di Taiwan, ha scritto il Financial Times, particolarmente interessato alla deriva economica della situazione, Ernie Bower, un esperto di sud-est asiatico al CSIS di Washington, ha detto che la causa delle proteste è stato il nazionalismo e che per questo il Vietnam potrebbe perdere investimenti stranieri».
«È tempo che Hanoi smaltisca la sbornia, o questi saccheggiatori finiranno per far soffrire tutto il paese. La tolleranza di Hanoi non deve mettere alla prova – oltre il limite – la pazienza della Cina», ha scritto ieri il quotidiano in inglese del Partito comunista Global Times, a seguito delle proteste vietnamite contro le fabbriche di Pechino, prima ancora che si diffondessero le notizie circa la morte di lavoratori cinesi (ventuno secondo fonti Reuters). Ma oggi la novità si concentra sulle fabbriche e la produzione, interrotta a causa delle proteste. E per il Vietnam si apre il baratro della perdita di investitori.