Il tira e molla sulla salma di Priebke ha fatto riscoprire alla nostra stampa l’orgoglio antifascista – spesso un po’ sonnacchioso – e la vergogna del neonazismo becero di un’esigua minoranza. Ma anche in India, a fascismi vecchi e nuovi, non si scherza.

Recentemente il quotidiano dell’India meridionale The Hindu ha pubblicato un’analisi acuta sul ruolo effettivamente svolto dalla Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) – organizzazione paramilitare di stampo ultranazionalista hindu – nei processi decisionali del Bharatiya Janata Party (Bjp), il principale partito di opposizione, conservatore, che ha nominato Narendra Modi candidato al posto di primo ministro per le prossime elezioni del 2014.
Il pezzo, firmato da Vidya Subrahmaniam, ripercorre sinteticamente le vicissitudini legali della formazione extraparlamentare, in un primo tempo bandita dal governo della nuova India indipendente targato Indian National Congress (Inc) nel 1948, a seguito dell’assassinio del Mahatma Gandhi da parte di un integralista hindu, ma poi prontamente riabilitato nel 1949.
L’oggetto del contendere, all’epoca, era lo status della Rss all’interno del sistema partitico indiano. Senza uno statuto e delle regole ufficiali, la Rss era uno dei tanti gruppi ultranazionalisti dell’epoca, nota per le azioni violente e la presa di distanza dalle posizioni di Gandhi, giudicato troppo prono ad assecondare le richieste dei musulmani che avrebbe poi portato alla creazione del Pakistan. L’assassinio del Mahatma si inseriva in un contesto di caos post-Partition, un clima di odio inter-religioso fomentato dai gruppi settari come la Rss, risoluti a difendere le radici hindu del paese anche ricorrendo alla forza.
La Rss e le sue azioni ostacolavano di fatto la realizzazione del progetto del primo ministro Nehru, che intendeva dare alla nuova India un carattere secolare con sprazzi di socialismo sovietico – l’Urrs era il suo modello di riferimento – evitando guerre fratricide tra chi doveva essere considerato solo indiano, hindu o musulmano che fosse. Per questo si decise di imporre alla Rss la redazione di un manifesto costitutivo, in cui a chiare lettere veniva indicato che le precondizioni per l’esistenza del gruppo nella legalità fossero l’abbandono dell’attività politica e dell’uso della violenza.
I paletti furono rispettati, lo statuto fu redatto ed accolto dalla Corte suprema, e da allora la Rss ha diritto di cittadinanza in India in quanto “gruppo a fini culturali”, scevro di ogni risvolto politico. Questo sulla carta, considerando che la maggior parte del direttivo del Bjp proviene proprio dalle file della Rss, capace di mobilitare migliaia di affiliati trasformandoli in braccio armato per condurre pogrom su minoranze etniche o religiose nel paese.
Il potere della Rss, che controlla sindacati, attività produttive e forza lavoro, le è valso una posizione di primo piano nel decretare le decisioni politiche del Bjp: nel caso di Modi, ad esempio, la convergenza sul suo nome si è raggiunta solo grazie alla mediazione della Rss e delle altre sigle dell’integralismo hindu come la Vishwa Hindu Parishad e il Shiv Sena, riunite in quella che viene chiamata la Sangh, “L’Organizzazione”. Estremista hindu è sottointeso.
Si tratta quindi di un ruolo politico a tutti gli effetti, questa la tesi di Subrahmaniam, che a regola varrebbe la messa al bando del gruppo, attenendosi al documento fondativo sottoscritto dalla Corte suprema nel 1949. A poche ore dalla pubblicazione dell’articolo l’autrice è stata tempestata di minacce di morte, mentre un paio di giorni fa una “delegazione” della Rss ha preteso di entrare nella sede del The Hindu e parlare col direttore della testata, mentre una folla di membri del gruppo protestava fuori dai cancelli.
Lo scambio di opinioni pare si sia svolto senza danneggiamenti della direzione, col direttoredel The Hindu che si è rifiutato di commentare la vicenda.
Domenica scorsa il Shiv Sena aveva ottenuto il permesso dalle autorità di Mumbai per tenere un evento in pubblico, controfirmando un affidavit in cui si impegnava a mantenere il tenore dell’incontro nell’alveo delle “attività culturali”. Salvo poi inscenare un comizio durissimo, attaccando il premier Manmohan Singh e altri leader “nemici”.
Insomma, alla domanda di alcuni amici che sbalorditi chiedevano “ma davvero ci sono i fascisti in India?”, la risposta è sì, ci sono eccome. Sono organizzati in stimatissime associazioni culturali, come in Italia.
Il tira e molla sulla salma di Priebke ha fatto riscoprire alla nostra stampa l’orgoglio antifascista – spesso un po’ sonnacchioso – e la vergogna del neonazismo becero di un’esigua minoranza. Ma anche in India, a fascismi vecchi e nuovi, non si scherza.