Dopo oltre un anno e mezzo di stallo, è tornata d’attualità la questione dei negoziati con i Taliban. L’ultimo tentativo era stato effettuato nel 2013, con l’apertura di un ufficio di rappresentanza a Doha (Qatar), ma era presto fallito, in primo luogo per l’opposizione dell’allora Presidente Hamid Karzai, il quale aveva aspramente criticato le modalità con le quali tale processo era stato gestito già nelle sue fasi iniziali.

Da ultimo, i negoziati erano saltati per una questione di forma, in particolare per le bandiere dello Stato Islamico dell’Afghanistan che sventolavano all’esterno dell’ufficio di Doha, le quali alimentavano, secondo Karzai, l’impressione che vi fossero due distinte autorità statuali nel Paese. Un affronto ritenuto intollerabile, che aveva allora spinto l’ex-Presidente a interrompere i negoziati con gli Stati Uniti su un Accordo Bilaterale di Sicurezza (Bilateral Security Agreement, BSA), che fungesse da cornice legale per l’azione delle truppe americane che sarebbero rimaste in Afghanistan dopo il 2014.
Con l’elezione alla presidenza di Ashraf Ghani si è registrata una forte discontinuità rispetto al passato, come evidenziato dall’immediata firma del BSA e dall’autorizzazione ai raid notturni contro i Taliban, vietati dalla precedente Amministrazione (con conseguenze estremamente negative per l’efficacia dell’azione militare delle truppe internazionali). Se Karzai era mosso dalla convinzione che gli USA avessero un interesse di lungo termine in Afghanistan (il controllo di basi militari che gli consentissero di effettuare operazioni anti-terrorismo in Pakistan e mantenere una presenza a ridosso di Iran, Cina e Asia centrale), Ghani, al contrario, ha dimostrato da subito un atteggiamento più pragmatico, consapevole del fatto che Kabul non rappresenta più una priorità per la Casa Bianca. Come emerso dalla recente visita in Afghanistan del nuovo Segretario americano alla Difesa, Ash Carter, questa nuova fase nei rapporti bilaterali si tradurrà probabilmente in una revisione del calendario di ritiro delle truppe USA, attualmente fissato alla fine del 2016.
D’altra parte, il 2014 ha fornito chiare indicazioni circa l’incapacità dell’Afghanistan di reggersi, almeno per ora, sulle proprie gambe. Le elezioni presidenziali svoltesi tra aprile e giugno hanno rivelato lo scarso livello di maturità democratica sin qui raggiunto dalle istituzioni e dai principali attori afghani: solo la mediazione americana e la presenza Nato nel Paese hanno infatti impedito che le tensioni alimentate dai presunti brogli sfociassero in scontri armati, suscettibili di spingere l’Afghanistan sull’orlo di una nuova guerra civile.
Il 2014, inoltre, è stato l’anno in cui si è registrato il più alto numero di vittime tra i civili dal 2009, anno in cui la missione Onu in Afghanistan ha iniziato la propria attività di monitoraggio. Il bilancio è stato di 3.699 morti e 6.849 feriti, in aumento del 22% rispetto all’anno precedente. Sono state inoltre circa 5.000 le perdite subite dalle forze di sicurezza locali, principalmente nel corso di combattimenti con l’insorgenza. Si tratta di un’importante novità rispetto al passato, quando la maggior parte delle vittime era provocata da attacchi con ordigni esplosivi improvvisati (Improvised Explosive Device, IED). Ciò segnala una pericolosa, sebbene prevedibile, evoluzione della minaccia: con il progressivo ritiro delle truppe internazionali, infatti, l’obiettivo dei Taliban è ora quello di estendere progressivamente la propria influenza sul Paese, prendendo il controllo di crescenti porzioni di territorio. Le forze governative sono riuscite sinora a proteggere i principali centri urbani, dove si è comunque registrato un deterioramento del quadro di sicurezza, con un aumento del numero di attentati (in particolare a Kabul). Le milizie ribelli, invece, sono riuscite a impadronirsi di molte aree rurali, non solo nelle loro tradizionali roccaforti nel sud e nell’est del Paese ma anche in alcune province settentrionali (in particolare in quelle di Kunduz e Badakhshan).
Con la ripresa oramai imminente dei combattimenti (che generalmente diminuiscono d’intensità durante i mesi invernali), la situazione potrebbe rapidamente deteriorarsi, soprattutto alla luce del forte ridimensionamento del ruolo e del numero delle truppe internazionali impiegate nel Paese. Pur immaginando una più lunga permanenza di un contingente americano in Afghanistan, l’illusione di una vittoria militare sulle milizie talebane sembra ormai essere stata accantonata, poiché contraria ad ogni logica. Occorre allora chiedersi cosa potrebbe spingere i Taliban a sedersi al tavolo dei negoziati, proprio ora che appaiono in una posizione di forza rispetto alle controparti.
Una parziale spiegazione potrebbe derivare da alcune fratture emerse all’interno del gruppo in questi ultimi anni, perlopiù provocate dalla leadership sempre più debole (per usare un eufemismo) esercitata dal Mullah Omar, sulla cui sopravvivenza sono in molti ormai a nutrire dei dubbi. Tali divisioni, tra le altre cose, hanno favorito l’adesione allo Stato Islamico da parte di un gruppetto di poche centinaia di militanti, capeggiati dal Mullah Rauf Khadem, ex-comandante talebano ucciso il 9 febbraio da un attacco aereo americano. Un fenomeno per ora contenuto, ma da tenere sotto stretta osservazione.
Ben più determinante ai fini dell’avvio di negoziati appare però il nuovo ruolo assunto dal Pakistan. Sono stati proprio i vertici militari pakistani, alcuni giorni fa, a comunicare al governo afghano di aver intensificato la propria attività di persuasione sulla leadership talebana, affinché accetti di partecipare a trattative con Kabul. Il sostegno del Pakistan è stato di fondamentale importanza per la sopravvivenza dei Taliban alle operazioni militari degli USA e dei loro alleati, avendo consentito al gruppo di avvalersi di rifugi sul proprio territorio, non violabili dalle truppe internazionali. Vari membri della leadership talebana, compreso il Mullah Omar, avrebbero trascorso in Pakistan questi ultimi anni, controllati a vista dall’intelligence di Islamabad. Il sostegno offerto ai Taliban ha come scopo quello di garantire al Pakistan una persistente influenza sulle vicende politiche afghane. Il forte deterioramento dei rapporti bilaterali registrato soprattutto durante l’ultima fase del governo Karzai aveva rafforzato nelle autorità pakistane la convinzione di doversi servire di ogni strumento a disposizione per conservare un certo potere negoziale e prevenire un eccessivo rafforzamento dell’influenza indiana sull’Afghanistan.
Tuttavia, l’elezione di Ashraf Ghani sembra aver placato almeno in parte i timori pakistani. L’attuale Presidente afghano, infatti, si è dimostrato ben più conciliante del suo predecessore nei confronti delle richieste sopraggiunte dal Pakistan. In termini pratici, l’apertura di Ghani si è già tradotta in una più intensa cooperazione a livello militare e di intelligence, nella cancellazione di una fornitura di armi russe pagata da Nuova Delhi e nell’invio in Pakistan di un gruppo di soldati afghani per attività di addestramento (tale richiesta era stata sempre respinta dall’Amministrazione Karzai). Si tratta dunque di una svolta vera e propria, oltre che di una sostanziale accettazione di un ruolo da “junior partner” nei rapporti con il Pakistan, elemento che alla lunga rischia di indebolire la posizione di Ghani, il quale deve far fronte all’opposizione di numerosi attori interni, in particolare di quelli di etnia non-pashtun.
D’altra parte, anche Islamabad sembra aver preso coscienza dei vantaggi che trarrebbe da una eventuale pacificazione dell’Afghanistan. Sebbene il Paese sia impegnato dalla metà del 2014 in una campagna militare a vasto raggio contro i gruppi terroristici sul suo territorio, il quadro della sicurezza rimane estremamente precario, come evidenziato dagli attentati registrati negli ultimi mesi, alcuni dei quali pianificati proprio sul territorio afghano, dove si troverebbe attualmente la leadership del “Tehrik-i-Taliban Pakistan” (TTP), compreso il Mullah Fazlullah. Instabilità che ha gravi ripercussioni sull’economia del Paese, incapace di crescere a tassi in linea con il suo potenziale. Secondo le autorità di Islamabad, il costo (diretto e indiretto) del terrorismo dal 2001 ad oggi supererebbe i 100 miliardi di dollari, una quota dei quali in mancati investimenti stranieri. Finanziamenti pronti ad essere elargiti dalla Cina, tramite la realizzazione del cosiddetto “Corridoio Economico Cina-Pakistan”, piano che prevede la realizzazione di fondamentali infrastrutture stradali, portuali, aeree ed energetiche, in grado di alleviare le difficoltà economiche pakistane. In cambio, però, Pechino ha chiesto (e in parte già ottenuto) un maggiore impegno alle autorità di Islamabad nella lotta al terrorismo, temendo che tale fenomeno aggravi ulteriormente la situazione nella provincia cinese dello Xinjiang.
Vanno letti in quest’ottica i più recenti avvenimenti nella regione e il ruolo di facilitatore assunto dalla Cina nei negoziati con i Taliban. Lo scorso anno, una delegazione composta da due esponenti di spicco del movimento talebano e da alcuni ufficiali pakistani si è recata a Pechino per discutere di un eventuale processo di pace. A Londra, lo scorso dicembre, si è svolto un vertice trilaterale tra Cina, Stati Uniti e Afghanistan per discutere del futuro di questo Paese. Fatti che mettono in evidenza un attivismo cinese per certi versi sorprendente, ma che potrebbe rivelarsi determinante ai fine del buon esito di eventuali negoziati, soprattutto alla luce dell’influenza di Pechino sul governo pakistano.
La pace in Afghanistan sembra dunque passare per la Cina e il Pakistan, non a caso i due soli Paesi sinora visitati da Ashraf Ghani. Il processo si preannuncia lungo, complesso e irto di ostacoli, ma il costo di un suo eventuale fallimento appare oggi insostenibile per la maggior parte degli attori coinvolti.
Dopo oltre un anno e mezzo di stallo, è tornata d’attualità la questione dei negoziati con i Taliban. L’ultimo tentativo era stato effettuato nel 2013, con l’apertura di un ufficio di rappresentanza a Doha (Qatar), ma era presto fallito, in primo luogo per l’opposizione dell’allora Presidente Hamid Karzai, il quale aveva aspramente criticato le modalità con le quali tale processo era stato gestito già nelle sue fasi iniziali.