All’alba di sabato scorso il sangue scorreva ormai da ore per le vie di Rabea al-Adaweya. Mentre Piazza Tahrir era un pandemonio inneggiante all’esercito, la voce dei Fratelli Musulmani, che pretendevano il ritorno del presidente Morsi, veniva soffocata a colpi di fucile. La conta dei morti non ha dato risultati univoci: 127 vittime accertate dai Fratelli Musulmani, 70 dalla polizia. I feriti sarebbero migliaia, più di 4000.

Photo Francesca Volpi http://rawstories.tumblr.com/
Le voci e le testimonianze del giorno dopo non sono bastate a ricostruire gli eventi. «Stavamo marciando verso Piazza Ramses. Ma in prossimità del Ponte 6 Ottobre è successo qualcosa. Era chiaro che la polizia non voleva farci avanzare» ci spiega Ali che partecipava alla manifestazione. Da quel momento, il buio è sceso su quella che fino a poche ore prima sembrava una marcia pacifica. Semplici provocazioni tra fazioni opposte in Egitto portano spesso a sanguinose battaglie campali. Ma stavolta il dramma ha raggiunto proporzioni inaudite. Al termine degli scontri tra i sostenitori di Morsi e la polizia, le salme venivano accatastate in ospedali improvvisati a Rabea. Mentre si tentava ancora di ripulire i pavimenti dal sangue, il ministro dell’Interno, Mohamed Ibrahim, in conferenza stampa, precisava che la polizia si era limitata a contenere i manifestanti con gas lacrimogeni. Ma a Rabea è chiaro che i colpi mortali sono stati inflitti da armi da fuoco mirando a testa e addome. Nessun caso di intossicazione.
La narrativa farsesca dei governi che si sono susseguiti negli ultimi anni non cambia. Le stragi non trovano un movente. I veri responsabili non vengono perseguiti. La realtà che si vede con i propri occhi ha vita breve ed è subito manipolata o smentita dai media e dal ministero dell’Interno. Non è una novità. Stesso copione del febbraio scorso, a Port Said, sul Canale di Suez. Nel febbraio 2012, in occasione di una partita di calcio tra al-Ahly del Cairo e al-Masry di Port Said, 72 tifosi furono massacrati all’interno dello stadio della ricca cittadina portuale. Le dinamiche del massacro restano tutt’ora incerte. Le sentenze emesse un anno dopo scontentarono tutti, talmente salomoniche da non individuare il vero colpevole. Da Port Said al Cairo, però, erano tutti d’accordo su un punto: la polizia era responsabile di gravi omissioni, di mancati controlli e di aver permesso che 72 ragazzi morissero intrappolati nella ressa che si era scatenata all’interno dello stadio.
In occasione della nostra visita a Port Said dello scorso marzo, fu proprio un poliziotto a confermare come gli ordini ricevuti dai suoi superiori quel giorno fossero di non intervenire in caso di scontri fra i tifosi. E fu il caos. Le sentenze, che penalizzarono fortemente i tifosi dell’al-Masry, portarono migliaia di persone in strada, mettendo a repentaglio anche il regolare flusso del Canale di Suez. La polizia, all’epoca braccio armato del governo dei Fratelli Musulmani, era il nemico. L’allora presidente Morsi dovette inviare l’esercito per calmare la folla inferocita di Port Said, sorta di città-stato, strategica per l’economia egiziana. I militari furono accolti come liberatori. La quiete tornò in pochi giorni e i soldati si ritrovarono persino a gestire il traffico per le strade al posto dei poliziotti, richiamati lontano da lì.
La sensazione era che il paese venisse spinto verso il caos per incoraggiare gli egiziani a riabbracciare l’esercito. Intervistammo Muhammad, un attivista del Dostour (il partito di el-Baradei, attuale vice-presidente). «La strage di Port Said è di natura politica», ci disse, «Nessuno più dell’esercito ha guadagnato dalla morte di decine e decine di persone». Nuovamente acclamati dalla folla, arbitri di una partita che in Egitto resta in bilico, i militari hanno posto fine all’intesa con Morsi giocando la carta populista della “sicurezza”. Mentre Port Said è stata il banco di prova per testare il consenso verso i militari, Rabea al-Adaweya è stata la logica conseguenza di una polarizzazione politica basata sull’individuazione di un nemico della rivoluzione, vero o presunto che sia. I carrarmati schierati per le strade di Port Said lo scorso marzo e quelli di Piazza Tahrir in questi giorni hanno generato lo stesso sollievo per il popolo egiziano. E ora per strada i Fratelli Musulmani non sono più definiti “il male minore”, bensì “irhab” (terroristi ndr). Il 25 gennaio 2011, quando tutto iniziò, forse non è mai stato così lontano.
All’alba di sabato scorso il sangue scorreva ormai da ore per le vie di Rabea al-Adaweya. Mentre Piazza Tahrir era un pandemonio inneggiante all’esercito, la voce dei Fratelli Musulmani, che pretendevano il ritorno del presidente Morsi, veniva soffocata a colpi di fucile. La conta dei morti non ha dato risultati univoci: 127 vittime accertate dai Fratelli Musulmani, 70 dalla polizia. I feriti sarebbero migliaia, più di 4000.